Sono trascorsi 46 anni da quando l’Italia dispose la chiusura dei manicomi con la legge 180 del 1978. Legge ispirata dallo psichiatra Franco Basaglia, che a Gorizia aveva rivoluzionato il metodo di cura dei pazienti restituendo loro dignità e diritti, sottraendoli alla marginalizzazione e all’isolamento. E che aveva fatto della psichiatria italiana un punto di riferimento nel mondo, anche grazie a una rete capillare di servizi territoriali. Ora non è più così: il servizio rischia di essere travolto dalla grave carenza di risorse economiche e umane nella quale annaspa da tempo la sanità pubblica. E il fatto è che il pericolo si palesa in un contesto di assoluta emergenza. “Negli ultimi tre anni i disturbi mentali sono aumentati del 28%”, dice Emi Bondi, presidente della Società italiana di psichiatria, rilanciando l’allarme dell’Oms, a livello globale, su un imminente sorpasso: la prevalenza delle patologie psichiatriche sta per superare quella delle malattie cardiovascolari.
“È quanto verifichiamo nella quotidianità del nostro lavoro – spiega Bondi –, con un picco di diagnosi che riguardano prevalentemente ansia e depressione: in particolare i sintomi depressivi sono quintuplicati, oggi si ritiene che colpiscano una persona su tre. A farne le spese sono soprattutto i giovani, le donne, gli anziani e le persone delle fasce più povere e disagiate, come spesso succede nelle fasi difficili come quella che stiamo attraversando, tra le conseguenze dello choc pandemico, l’incertezza e la paura generate dalle guerre, l’aumento del disagio economico e sociale, in una società sempre più competitiva e ipertecnologica che richiede un grande sforzo di adattamento e che fa crescere il livello dello stress. Ma a fronte di necessità che aumentano gli strumenti a nostra disposizione diminuiscono”.
Risale all’inizio del Duemila l’accordo tra Stato e Regioni che stabiliva di portare al 5% del fondo sanitario la spesa da destinare alla salute mentale. Quell’accordo non solo non è mai stato applicato, la quota, al contrario, è costantemente diminuita, fermandosi a poco più della metà e allontanandoci sempre di più dall’obiettivo del 10% fissato dall’Unione Europea. Sono ampiamente disattese anche le più recenti intese Stato-Regioni, come quella che nel 2023 ha stabilito che il numero degli psichiatri deve essere pari a 1 per 10mila abitanti sopra i 18 anni. Il fabbisogno sarebbe di 5mila specialisti ma oggi ne sono in servizio 3.636: sul territorio nazionale ne mancano ben 1.364. Carenza gravissima per una disciplina dove è fondamentale l’interazione tra paziente e medico. Quanto ai posti letto nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura, che per il 90% sono i reparti ospedalieri, ne servirebbero 1.241 in più.
La mancanza di specialisti ha radici lontane. “Negli ultimi vent’anni le scuole di specializzazione, per errori di programmazione di Regioni, ministero della Salute e atenei, hanno formato un numero di psichiatri insufficiente a coprire la domanda – osserva Bondi – Ora si tenta di correre ai ripari. Ma nel frattempo a causa dell’aumento del disagio professionale nella sanità pubblica il servizio nazionale è diventato sempre meno appetibile. Con una forte perdita di competitività rispetto alle strutture private, tanto che spesso ai concorsi non si presentano candidati”. Un malessere cresciuto in modo esponenziale dopo la morte a Pisa, nell’aprile dello scorso anno, della psichiatra Barbara Capovani, uccisa da un suo paziente. Mentre a L’Aquila, proprio pochi giorni fa, un’altra psichiatra ha riportato la frattura del femore dopo essere stata aggredita da un tossicodipendente.
Solo da poco tempo, dopo numerose pressioni, il ministero della Salute ha attivato un tavolo tecnico per la riorganizzazione del servizio di fronte all’incremento esponenziale dei disturbi della sfera mentale. Ma per ora nemmeno il decreto Calabria, che consente il reclutamento degli specializzandi, riesce a tamponare le falle. Un quadro drammatico nel quale si inserisce quello ancora più tragico della neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (per bambini e ragazzi fino ai 18 anni). Vale a dire la disciplina meno presidiata – dispone in tutta Italia di solo 400 posti letto e ne occorrerebbero almeno il doppio – nonostante “il 10% dei bimbi e il 16,7% degli adolescenti soffra di un disturbo mentale”, come spiega Stefano Vicari, primario del servizio di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma. Anche in questo caso il fenomeno – tra disturbi del comportamento alimentare, deficit di attenzione, ansia, depressione, disturbi dell’umore o dello spettro autistico – è in deciso incremento.
“Nel 2013 le nostre consulenze psichiatriche furono poco meno di 200, sei anni dopo eravamo a 1.080 e con la pandemia e il post Covid siamo arrivati a 1.800 all’anno”, conferma Vicari. “Prima della pandemia – prosegue Vicari -, avevamo 50 ricoveri all’anno per anoressia, poi sono triplicati. Gli atti di autolesionismo e le ideazioni suicidarie sono cresciute del 40%. E accogliamo bambini e bambine che arrivano da regioni dove non c’è nemmeno un posto letto di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza”. Regioni come Umbria, Calabria, Abruzzo, Basilicata, Valle d’Aosta. Le cause dell’impennata tra i minori sono quasi sempre le stesse. “Le malattie mentali, che due volte su tre si sviluppano nell’età evolutiva, aumentano in concomitanza con crisi economiche e sociali o guerre – aggiunge Vicari – ma c’è anche altro, come l’abuso di sostanze stupefacenti in età precoce e la dipendenza dai device: ci sono studi che confermano il pericolo dello sviluppo di disturbi mentali nei bambini che già in tenera età giocano a lungo con gli smartphone. E purtroppo siamo di fronte a una forte sottovalutazione del fenomeno”.
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