Un pensiero atavico ci spinge a credere che ingoiando qualcosa possiamo fare nostre le sue qualità.
Così:
mangiando un toro si diventa potenti
mangiando l’erba si diventa elastici
mangiando un serpente si diventa sinuosi e capaci di nascondersi
mangiando un pesce scomparirà il mal di mare
Non è un pensiero logico.
Ha radici antiche.
Esiste nell’inconscio collettivo e viene abilmente sfruttato per venderci prodotti inutili (e spesso tossici) coltivando l’equazione:
.
MANGIARE = ACQUISIRE
.
Acquisire:
forza
prestanza
sicurezza
piacere
popolarità
successo
… e così via!
Immagini e slogan pubblicitari fanno leva su questo principio inconscio e potente.
Stimolano il desiderio di possedere qualcosa mettendola in bocca.
Agiscono sulla credenza che l’organismo assimili ciò che inghiottisce per renderlo parte integrante di sé.
Stuzzicano il bisogno di possesso.
Lusingano l’egocentrismo infantile che accompagna il piacere orale.
I cuccioli hanno la necessità di stimolare le gengive.
Massaggiarle è un modo per alleviare il dolore che accompagna la crescita dei primi dentini.
Per loro, conoscere il mondo mettendolo in bocca significa creare le prime relazioni con l’esterno.
Morsicando la vita, i bambini modulano il bisogno di fusione e la scoperta dell’altro.
Esplorano il dentro e il fuori, il pieno e il vuoto, l’io e il tu, la presenza e l’assenza.
Devono abbandonare il piano dell’Infinito da cui provengono per muoversi nelle coordinate della fisicità, imparando ciò che appartiene a una realtà fatta di prima e dopo, vicino e lontano, mancanza e completezza, paura e prepotenza, mio e tuo.
L’egocentrismo li spinge ad addentare l’esistenza per farla diventare una parte di sé.
E quando la fusione non è possibile in loro aiuto arriva il possesso: quel bisogno spasmodico di avere ciò che sfugge, per non perderlo.
Mordere riempie i vuoti dello stomaco e del cuore.
È così che impariamo a conoscere l’avidità, la gelosia, la rabbia, la prepotenza e il dominio.
È così che dimentichiamo la Totalità e perdiamo la sicurezza che deriva dal riconoscere ogni cosa in se stessi.
Mordere calma la paura dell’ignoto, la vergogna della diversità, l’angoscia della solitudine.
E nel tempo si trasforma in un rituale capace di farci sentire uniti.
Uniti nel piacere di condividere il cibo.
Uniti nel piacere di combattere un nemico.
Noi e loro.
Io e gli altri.
I buoni e i cattivi.
Mangiare insieme significa essere parte di un gruppo.
Ci fa sentire meno soli.
“Chi non mangia in compagnia è un ladro o una spia”
.
Oggi la condivisione del cibo è diventata un cerimoniale indispensabile alla socializzazione, il veicolo privilegiato per dimostrare di volersi bene.
Ma è un volersi bene possessivo.
Discrimina la diversità.
Impone l’appartenenza.
E rende indispensabile l’omologazione.
Pena: l’emarginazione, la derisione e l’abbandono.
Chi lucra sulla vendita del cibo conosce bene i meccanismi psicologici che sottostanno all’alimentazione.
E sfrutta a piene mani i nostri bisogni infantili per tenerci schiavi grazie all’oralità.
Per liberarsi dalla bulimia sociale che rende vittime del bisogno compulsivo di mangiare è necessario superare la fase orale e aprirsi a un’integrità interiore capace di far convivere gli opposti senza giudicarli.
Occorre ricomporre la Totalità dentro di sé arricchendo la conoscenza con l’esperienza dell’individualità.
Significa coltivare la comprensione, la cooperazione, la condivisione, l’ascolto e la solidarietà.
Per tutte le creature.
Per ogni aspetto di se stessi.
Vuol dire costruire un mondo migliore.
Capace di conoscere senza mordere, di amare senza possedere, di integrare senza emarginare e senza distruggere.
Durante l’infanzia il bisogno di portare tutto alla bocca ci aiuta a compiere i primi passi nel mondo della diversità, serve a farci scoprire i mille volti dell’Infinito, ci insegna la ricchezza nascosta nelle identità.
Ma poi è necessario integrare dentro di sé la conoscenza dell’altro, non per averlo inghiottito ma per averlo capito.
Non per chiuderlo nello stomaco ma per aprirsi alle profondità del dialogo.
Non per combatterne le differenze ma per conoscerne le qualità.
Carla Sale Musio