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di Belinda Bruni
La scuola italiana è entrata ufficialmente nella sua finale agonia due anni fa con la dichiarazione di stato di emergenza per la diffusione del Sars-Cov2. Il declino è stato inarrestabile tra imposizione di didattica a distanza, norme sanitarie sempre più stringenti quanto illogiche, campagna vaccinale martellante, criminalizzazione di qualunque ragionevole dissenso.
Questa distruzione dell’istituzione scolastica, a tutti i livelli, se da un lato ha un che di provvidenziale perché dalle sue ceneri possa un domani sorgerne una migliore e finalmente a misura di discente, dall’altra ha visto la collaborazione di quasi tutto il corpo insegnante, vuoi per cecità, per ignavia, per semplice accondiscendenza al potere o per ricatto materiale.
A settembre 2021 è stato imposto obbligo di greenpass a tutto il personale scolastico, a dicembre 2021 l’obbligo di vaccinazione per insegnanti, personale ATA e amministrativo.
Questo nonostante una spontanea adesione della categoria alla campagna vaccinale che ha toccato punte del 90% e una non giustificata accusa alle scuole di essere causa di focolai secondo la loro stessa narrazione.
Un certo numero di personale scolastico è andato incontro alla sospensione, dando prova di coraggio e integrità.
Intervistiamo qui la Dirigente Scolastica Francesca Spampani, una dei pochi che ha sempre mantenuto una visione organica e lucida di quanto stava avvenendo e che oggi è andata incontro alla sospensione.
Buongiorno Francesca, per tracciare un percorso di questi due anni, possiamo focalizzarci innanzi tutto su quel fatidico maggio 2020, quando fu deciso che quell’anno scolastico sarebbe finito “a distanza”, dichiarando le scuole luoghi pericolosi?
Immagino che quella decisione abbia colto tutti all’improvviso: docenti, alunni, dirigenti. Ognuno impegnato a riscrivere l’attività didattica e la vita di ogni giorno. Non appartengo né agli apocalittici che demonizzano la didattica a distanza né agli entusiasti estimatori che ne cantano le lodi celebrandone le virtù rivoluzionarie. Del resto la digitalizzazione dell’istruzione non è una novità e tra le sue spinte vi è stato il desiderio di democraticizzarne l’accesso, per esempio venendo incontro a quegli studenti e studentesse che vivevano difficoltà temporanee di tipo geografico, personale o di salute. Tuttavia la sua generalizzazione nel marzo 2020 quale risposta allo stato di emergenza ha mostrato tutte le fragilità di una improvvisazione che portava con sé il rischio di risultati mediocri, come poi si è palesato sotto gli occhi di tutti. Fra carenze di tipo strutturale e di disponibilità di strumenti adeguati e inadeguatezza delle risorse professionali coinvolte, docenti e dirigenti, i quali, pur animati dalle migliori intenzioni, hanno toccato con mano come la didattica a distanza in situazioni di emergenza non abbia niente a che fare con l’e-learning. Progettare un corso online richiede mesi di lavoro e questa transizione digitale forzosa e frettolosa non si è mai tradotta in un reale ripensamento delle dinamiche del processo di insegnamento-apprendimento.
Cosa è accaduto nell’anno scolastico 2020-21, quando le scuole superiori non sono praticamente mai andate a scuola in presenza? Cosa significava in quella situazione essere una voce fuori dal coro che richiamava alla ragionevolezza e al senso di realtà?
Difficilissimo e accidentato il percorso iniziato come dirigente nel dialogo con gli organi collegiali. In qualità di garante del successo formativo degli studenti e delle studentesse ho fatto quanto era in mio potere per riportare i ragazzi a scuola, dalle attività laboratoriali in presenza fino alla creazione dei piccoli gruppi pensati per gli studenti con bisogni educativi speciali per i quali è evidente che, al momento, gli strumenti educativi online non sono realmente adeguati per rispondere alle loro difficoltà. A fronte di ben 12 casi in tutto l’anno scolastico 2020-21, a dimostrazione che la scuola era ed è un luogo sicuro, l’organo collegiale si è pronunciato negativamente circa le disposizioni che vedevano le attività laboratoriali svolgersi in presenza sino ad arrivare alla loro soppressione, ricondotte, nullificandole, nell’alveo della didattica a distanza.
La progettazione a piccoli gruppi in presenza mi ha visto invece chiamata a giustificarmi niente meno che di fronte alle forze dell’ordine, accusata di aver messo a rischio la salute degli studenti che a turno si recavano a scuola in presenza per portare avanti le attività didattiche in una forma di didattica digitale integrata che poteva forse, a mio modesto parere, limitare i danni che la didattica a distanza tout court stava provocando. Sono stata testimone dello scatenarsi di egoismi fra i più crudeli ed indegni del mondo della scuola che tanto ama definirsi comunità educante e luogo di accoglienza. Famiglie che gridavano allo scandalo di un dirigente che cercava di riportare i loro figli a scuola nella convinzione che quei luoghi fossero sicuri, sicuramente assai più sicuri dei mezzi di trasporto a cui nessuno ha mai messo mano per renderli adeguati al trasporto in sicurezza degli alunni, e assai più dei bar in cui era consentito raggrupparsi in barba alle misure di anti diffusione del contagio.
In quello stesso anno, in cui le scuole di secondo grado, ballavano quel ridicolo balletto per cui ad una settimana di rientro ne seguivano altre di chiusura imposta o dal governo nazionale o dalla regione, mi trovavo a dirigere come reggente, oltre ad un istituto di istruzione superiore, anche un istituto comprensivo in cui i casi erano numericamente superiori sia pur limitati. Ebbene gli istituti comprensivi dove i numeri dei casi di positività erano più alti rispetto agli istituti di secondo grado non hanno mai sofferto alcuna chiusura e hanno adottato la didattica a distanza solo nelle situazioni in cui le autorità sanitarie disponevano misure di quarantena per i gruppi classi coinvolti. È questa la prima delle incongruenze che mi ha fatto pensare che la gestione dell’emergenza di sanitario avesse ben poco. Perché obbligare gli istituti di secondo grado alla didattica a distanza se i casi si concentravano nel primo ciclo ossia dall’infanzia fino alla scuola secondaria di primo grado? Senza peraltro tacere il fatto che nessun caso di positività fra i piccoli e i giovani ha mai destato preoccupazione alcuna fra i medici. Ragion per cui oggi vedo altrettanto insensato spingere sulla vaccinazione dei più piccoli senza aver mai chiarito, perché la sperimentazione è ancora in corso, se davvero i vantaggi del vaccino agli under 18 superino gli svantaggi.
In questi primi tre mesi di anno scolastico cosa si sarebbe potuto fare all’interno della scuola per non giungere al ricatto finale della sospensione dal proprio ruolo?
In una intervista rilasciata ad un quotidiano locale a fine agosto espressi il parere secondo cui procedere con il pressing della campagna vaccinale mediante l’escamotage dell’introduzione della certificazione verde sui luoghi di lavoro, a scuola prima e negli altri settori poco dopo, non avrebbe dato i risultati sperati e che sarebbe stato preferibile una campagna di screening periodicamente condotta e rivolta al personale ed agli studenti per l’individuazione dei casi di positività. Alludevo anche alla falsa pista di un green pass ottenuto mediante vaccinazione e la cui altalenante validità non solo dimostrava tutta l’inconsistenza delle prove scientifiche a favore dell’efficacia della vaccinazione, ma introduceva un pericoloso ribaltamento di interessi. Se il fondamento della compressione delle libertà individuali era, secondo il legislatore, la tutela di un superiore interesse pubblico ossia la salute collettiva, aver indotto la credenza che i vaccinati non fossero veicolo di contagio ha esposto i non vaccinati, paradossalmente chiamati a dimostrare la propria sanità ogni 48 ore, al pericolo di contrarre il virus proprio ad opera di coloro che presumevano di esserne immuni.
Le condizioni necessarie all’imposizione di una vaccinazione obbligatoria sono state recentemente ribadite dalla Corte costituzionale (Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 5) eppure non credo che molti abbiano esaminato funditus quel pronunciamento. Secondo la Corte, “la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’art. 32 Cost.: se il trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; e se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria (sentenze n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990). Ebbene tutti e tre i presupposti mancano secondo il mio personalissimo parere, ma a voler essere più umili, stante la mia formazione professionale non giuridica, si vorrà ammettere almeno che non è ad oggi possibile concludere con certezza per l’inesistenza di conseguenze negative per chi è sottoposto al trattamento, che vadano oltre la normalità e la tollerabilità. A latere mi sia concesso dire che mi appare altrettanto insensata la mancata considerazione dello stato di immunizzazione naturale di quei soggetti che abbiano contratto il virus sviluppando la consueta risposta immunitaria. Se la fondatezza della terza dose sta, secondo il legislatore, nella diminuzione dei valori degli anticorpi riscontrata dopo un certo lasso di tempo, neppure troppo lungo, rispetto alla conclusione del ciclo primario, perché ignorare la condizione di coloro che non vogliono sottoporsi a vaccinazione stante la loro condizione di immunità naturale? Perché non dovrebbe gravare sullo Stato il dovere di accertare la ricorrenza di eventuali ragioni di esenzione dall’obbligo?
Tornando all’origine del ragionamento, tutto era stato fatto per rendere le scuole luoghi sicuri. Ma questi sforzi sono stati vanificati dalla falsa sicurezza indotta dalla certificazione verde conquistata con la vaccinazione, stante l’ovvia constatazione che a infettarsi sono anche e, dal poco che ho potuto constatare, soprattutto i vaccinati. Per cui posso puerilmente affermare, sia pur con poca soddisfazione, “ve lo avevo detto”. Se ancora un tassello mancava per rendere la scuola più sicura era lo screening gratuito per tutta la popolazione scolastica e non già i tamponi a pagamento quale misura punitiva per quei lavoratori che hanno liberamente scelto di non vaccinarsi.
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Cosa si potrebbe fare invece adesso, unendo le forze delle famiglie e di tutti i lavoratori sospesi, per evitare che questa onda di terrore e follia invada anche i ragazzi?
A questa domanda risponderò brevemente perché quando distribuivano l’ottimismo io non ero in fila! Sicuramente occorrerà fare rete e provare a promuovere una narrazione degli eventi degli ultimi due anni diversa da quella politicamente corretta e pertanto accettabile agli occhi dei più, quella insomma che mette al riparo dall’etichetta di NO VAX che io peraltro reclamo orgogliosamente. E, NO VAX ad honorem, a dire il vero, perché è la prima volta che mi confronto con questa tematica. Occorre leggere, confrontarsi, documentarsi per scoprire magari, tanto per fare un esempio, che i dati dell’influenza del 2018 non erano difformi da quelli della temuta e sbandierata quarta ondata o per sviluppare gli anticorpi contro le bestialità che vengono presentate come verità scientifiche, come ad esempio la scelleratezza di pretendere che chi è guarito debba vaccinarsi, l’idea che fra i malati si debbano contare tutti coloro che risultano positivi e non già soltanto coloro che stanno male, la colpevole noncuranza circa i dati sugli effetti indesiderati della vaccinazione soprattutto per i più giovani etc.
Chiudo con le parole di Karl Popper teorico del concetto di falsificabilità quale discrimine fra ciò che è scienza e ciò che non lo è. Karl Popper ci aiuta a comprendere che ogni teoria scientifica per quante conferme abbia avuto, non è detto che in futuro non possa essere smentita. È semmai possibile corroborare le teorie: una teoria corroborata è quella che ha passato il test di un esperimento potenzialmente falsificante. La corroborazione, sia ben chiaro, ci dice Popper, non dice nulla sulla verità della teoria, ma consente di scegliere tra teorie rivali quella momentaneamente più giusta. E se la voce di un filosofo non è sufficientemente autorevole, vista la scarsa considerazione di cui oggi godono, concedetemi di citare anche il fisico Richard Feynman quando ci ricorda che [Newton] “(…) ha ipotizzato la legge della gravitazione e con questa ha calcolato i moti dei pianeti e li ha confrontati con gli esperimenti… e ci sono volute diverse centinaia di anni prima che un minuscolo errore nel moto di Mercurio fosse osservato. Durante tutto quel tempo nessuno era stato in grado di dimostrare che la teoria fosse sbagliata e poteva essere considerata temporaneamente giusta”. Quindi non permettiamo che il dissenso, il pensiero divergente, il dubbio socratico, il desiderio di scoperta siano ideologicamente classificati come complottismo. Questo è l’arma, spuntata, di chi ha paura del pluralismo delle idee e se ne ha paura è doveroso come cittadini domandarsene la ragione.
Foto: Idee&Azione
28 dicembre 2021
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