La mattina del 15 aprile 1987 se né andò così. In punta di piedi, senza lasciare traccia alcuna di sé.
Il professor Caffè era ormai in quegli anni già diventato un monumento dell’accademia italiana ed era considerato, senza dubbio, come il capostipite della scuola keynesiana italiana.
Celebri i suoi articoli su “Il Messaggero” di Roma che all’epoca non era ancora nelle mani dell’immobiliarista oligarca Caltagirone, e sul quale si potevano leggere delle pregiati analisi economiche che oggi, in mezzo ad un mare di servilismo e mediocrità, appaiono come un miraggio nel deserto.
Il professor Caffè era un uomo minuto, ma soltanto nel fisico perché il suo intelletto era certamente inversamente proporzionale alla sua mole.
Da molti considerato, non a torto, come l’economista della Costituzione, l’accademico ed economista di certo non poteva e non può essere associato al tanto “vituperato” fascismo come invece ama fare la vulgata neoliberale ed eurista che non solo cerca di demonizzare continuamente il ventennio, ma associa qualsiasi istanza sovranista al movimento fondato da Benito Mussolini.
Non pare troppo ardito perciò affermare che se Caffè fosse ancora oggi in vita, i vari portavoce della casta neoliberale non avrebbero fatto troppa fatica ad accusarlo di “fascismo”, nonostante il professore non condividesse quella esperienza, in quanto molto più vicino al socialismo e a coloro che difendevano, a parer nostro a torto, i valori della cosiddetta resistenza nel secondo dopoguerra.
Caffè però purtroppo non è più qui per dire la sua, e per dare le sferzate che amava dare sulle colonne de Il Messaggero, e allora l’establishment ha gioco facile a inglobarlo senza che nessuno possa dire che quella che sta avvenendo è una vera e propria mistificazione della sua memoria.
Si vedono difatti delle locandine nelle università italiane di vari convegni e conferenze dedicati al professore, circondato dalla “aureola” delle stelle dell’Unione europea, la bandiera concepita dal padre putativo dell’Unione, il conte Kalergi, al quale ancora oggi è intitolato un premio insignito a varie personalità dell’apparato globalista, tra i quali oltre ai soliti noti, come Angela Merkel e Carlo Azeglio Ciampi, è possibile trovare anche Giovanni Paolo II, a dimostrazione che anche la Chiesa post-conciliare è stata pienamente assorbita dal piano di distruzione delle identità europee.
Caffè però non era né un pasdaran dell’Unione europea né tantomeno un eurista come può esserlo un Prodi qualunque o altri “economisti” di rango nettamente inferiore quali, ad esempio l’uomo del FMI, Carlo Cottarelli, che soltanto accostare allo studioso di politica economica dell’università La Sapienza sarebbe un oltraggio, o un vero e proprio sacrilegio.
Il professore si stava già dissociando in quegli anni da quel mondo che tanto esaltava la futura Unione europea e lui, pacato ma sempre risoluto e fermo nei giudizi, aveva già intuito che il progetto comunitario di europeo non aveva nulla, se non il nome.
Caffè contro l’Europa a trazione germanica
Caffè già in tempi non sospetti, il 3 giugno del 1975, scriveva un articolo dal titolo “Dalla interdipendenza alla dipendenza”, nel quale fustigava, e non poco, l’antesignana della futura UE, ovvero la CEE voluta così tanto da Alcide De Gasperi, uno dei primi politici italiani a frequentare il gruppo Bilderberg.
Il professore non gira affatto attorno alla questione e individua una eccessiva “germanizzazione” nella CEE, ma è meglio lasciare a lui la parola sul tema.
“ A questi esiti, d’altra parte, non è stata estranea l’incapacità dimostrata dalla Comunità Economica Europea a dare un contributo positivo alla creazione di un sistema operante di poteri bilancianti, destinati ad evitare un assoggettamento effettivo della disgregata area economica europea rispetto alle potenze mondiali egemoni. Non può sfuggire, al di là della retorica delle parole e dei messaggi, che il futuro europeo, come configurato dalla prevaricante ed economicamente obsoleta visione teutonica, non corrisponda agli ideali che mossero la costruzione comunitaria. Questa, negli auspici, avrebbe dovuto anch’essa basarsi su rapporti di effettiva parità tra i vari membri: sulla realistica comprensione che i dislivelli di partenza dei diversi paesi non potevano non ingenerare tensioni con il procedere dell’unificazione; sulla necessità di accorgimenti adeguati, per poter avanzare di conserva ed evitare l’instaurarsi di direttori”.
La CEE stava, evidentemente, andando nella direzione che l’UE ha esacerbato ancora di più perché la nascita stessa della Comunità Economica Europea non era stata concepita come un viatico per favorire gli scambi commerciali tra i Paesi europei, ma come mezzo per iniziare a erodere le singole sovranità nazionali e consegnarli ad una sovrastruttura internazionale che di europeo aveva poco, e che serviva gli interessi economici nemmeno della classe operaia tedesca, ma del capitale e della sua industria pesante.
Non poteva del resto che essere così in quanto la CEE era stata concepita anni addietro proprio nelle segrete stanze del gruppo Bilderberg nel 1955 nella località tedesca di Garmisch-Partenkirchen, laddove uomini come il fondatore del club stesso Josef Retinger, e il principe Bernardo d’Olanda, mettevano di fatto i primi mattoni del trattato di Roma.

Il principe Bernardo d’Olanda
Le élite europee decisero di sostenere il piano per un superstato europeo di natura tecnocratica non certo per la felicità dei popoli, odiati dai signori dell’alta finanza askenazita, ma piuttosto per perseguire gli interessi di quei poteri globalisti che volevano edificare una struttura sovranazionale autoritaria, fondata su un accentramento delle risorse economiche nelle mani del capitale.
Non poteva esserci spazio quindi per uomini come Federico Caffè in un simile pantheon neoliberale che si è premurato nel corso del tempo, e soprattutto dopo la rivoluzione del 1968 concepita dai filosofi della scuola di Francoforte, di occupare ogni singolo ateneo e think tank economico.
Se l’Italia era forse l’esempio più riuscito del successo del modello dello Stato imprenditore e della dottrina sociale della Chiesa della quale parlava mirabilmente Leone XIII, è proprio per tale ragione che essa subì forse l’attacco più violento e negli atenei a poco a poco gli economisti come Federico Caffè iniziavano ad essere sempre più emarginati.
Il professore lo aveva capito. Aveva intuito che c’era un ritorno di fiamma delle teorie neoliberiste soprattutto dopo che nel 1976 il premio nobel per l’economia era andato ad un personaggio come Milton Friedman, esponente di punta dei Chicago boys, ma soprattutto membro dell’esclusivo club della Mont Pelerin Society, che più che un think tank assomiglia ad una società segreta, considerata l’assoluto riserbo sulle discussioni e le decisioni prese da questo circolo.
Gli economisti della Mont Pelerin sono quelli che iniziano a sussurrare agli orecchi dei potenti, che ovviamente piuttosto che tapparsi le orecchie ascoltano con assoluta deferenza ed eseguono la ricetta neoliberale.
Arriva così la stagione delle privatizzazioni, che vengono attuate nella maniera più selvaggia possibile da una donna adorata da questi circoli come Margaret Thatcher, anch’ella oggi entrata nel pantheon degli statisti liberali che tanto danno hanno arrecato all’Europa e ai suoi popoli.
Gli anni’80 sono fondamentali per la strategia di colonizzazione della globalizzazione neoliberale.
Sono un’età di mezzo nella quale si intravedono ancora dei barlumi di keynesianesimo ereditato dall’immediato dopoguerra e la futura globalizzazione degli anni’90 che nel giro di pochi anni smantellerà tutto il patrimonio ereditato dalla Prima Repubblica e dallo Stato imprenditore attraverso la dismissione dell’IRI, il serbatoio della ricchezza pubblica industriale, svuotato da Draghi a bordo del Britannia nel 1992 e gentilmente consegnato a Goldman Sachs e JP Morgan.
Sembra quasi un’amara ironia della sorte che ad attuare l’economicidio dell’Italia sia stato un uomo come Mario Draghi, che studiò sui banchi universitari dell’università La Sapienza e che, in un primo momento, quasi veniva considerato un allievo della scuola post-keynesiana del professore tanto da fare nel 1970 una tesi di laurea critica della moneta unica, per poi dirigersi verso altri lidi, quelli della finanza di New York e Londra che spolpano gli Stati e al loro posto lasciano soltanto delle consumante carcasse.
Si narra che Caffè già negli anni’80 seppe di questo “tradimento” del suo ex allievo e ne fu molto deluso, ma la figura dello studioso pescarese era già divenuta ingombrante agli occhi di quel mondo che voleva liberarsi di lui per procedere alla conquista del dipartimento di Economia de La Sapienza, oggi divenuto un monumento al servilismo verso l’Unione europea, l’euro e qualsiasi cosa che sia ostile all’interesse nazionale ed esaltata dal capitale internazionale.
La sua scomparsa è giunta completamente inaspettata. Non è vero come si è voluto far credere in un primo momento che l’accademico temeva eventuali conseguenze per la sua pensione o per altre ristrettezze economiche che non esistevano.
Non c’era nessuna angoscia finanziaria in lui. Caffè esce dalla sua casa nel quartiere Balduina, a Roma, il 15 aprile del 1987 e, semplicemente, svanisce nel nulla.
I suoi studenti lo cercano ovunque, perché il professore era davvero benvoluto da chi seguiva le sue lezioni.
Era esattamente l’antitesi del corrotto barone universitario che oggi occupa le cattedre degli atenei e che fa “successo” non certo per le sue inesistenti capacità “accademiche” quanto per la sua appartenenza a circoli come il citato Mont Pelerin, per non parlare delle ubique massonerie con le quali è ormai impossibile tracciare una distinzione dalla università, considerata la preponderanza di docenti iniziati alla libera muratoria.
Caffè era un uomo che se fosse soltanto rimasto in vita, anche senza la sua cattedra alla Sapienza, sarebbe stata una bella gatta da pelare per coloro che saccheggiarono l’Italia nel 1992.
Nessun grande economista di rilievo disse allora, ad esempio, che Carlo Azeglio Ciampi bruciò in un colpo solo 48 miliardi di dollari di valuta estera per difendere scelleratamente il cambio fisso della lira con lo SME.
Caffè, che non era di certo un estimatore dell’antenato dell’euro, appunto il citato SME, difficilmente se ne sarebbe restato in silenzio di fronte a quella devastazione di pubblica ricchezza effettuata dal governatore della Banca d’Italia, anch’egli un sodale del infestante gruppo Bilderberg.
Altrettanto difficile pensare che il professore se ne sarebbe stato in disparte di fronte alla rapina commessa nottetempo da Giuliano Amato, il presidente del Consiglio che nel luglio del 1992 entrava nei conti correnti degli italiani per rubarli del 6 per mille.
La rapina venne giustificata in nome della “salvezza economica” dell’Italia, ma non c’era proprio nulla da salvare, perché l’Italia in qualsiasi momento sarebbe potuta uscire dalla gabbia dello SME e lasciare alle sue spalle il disfunzionale meccanismo dei cambi fissi europei.
Era soltanto un’altra menzogna degli organi di stampa dei vari oligarchi, in primis Agnelli e De Benedetti, che ovviamente volevano far credere che bere l’amara medicina dell’austerità era necessario per non far affondare l’Italia, ma proprio nel momento in cui la politica veniva spazzata via a colpi di avvisi di garanzia dal pool di Mani Pulite, sempre attento a non perseguire il PDS, mancava anche l’autorevole, pacata e ferma voce del professore che avrebbe denunciato con vigore quelle menzogne e l’attacco economico subito dall’Italia.
L’accademia non disse nulla nemmeno gli anni successivi, quando dopo l’ingresso nella prigione di Maastricht, l’Italia veniva accompagnata sul patibolo della moneta unica, che un raffinato economista come Caffè sapeva già con anni di anticipo essere disfunzionale per l’Italia e funzionale, seppur temporaneamente, per la Germania che grazie ad essa ha accumulato folli avanzi commerciali, oggi andati in fumo per la deindustrializzazione galoppante teutonica e per l’austerità così tanto voluta da Berlino.
Così come i vari economisti, ormai divenuti meri portavoce dei vari istituti della finanza internazionale quali il FMI e la Banca mondiale, se ne stette in silenzio di fronte alla perdita della sovranità monetaria, da loro anzi applaudita, così i vari baroni non chiesero verità sulle sorti dell’autorevole studioso.
Si poteva e si doveva indagare meglio sulla scomparsa di Federico Caffè perché la verità sulla sua misteriosa e improvvisa uscita di scena non era certo in inesistenti preoccupazioni di carattere finanziario, ma probabilmente in quello che scriveva l’economista.
Il professore scriveva infatti, senza troppi giri di parole, che il mercato già negli anni’70 era in mano a degli “incappucciati”, una espressione scelta forse anche per sottolineare un’appartenenza alla massoneria dei soggetti che muovono miliardi di capitali dietro l’anonimato più assoluto.
Soltanto dieci mesi prima della sua scomparsa, il 1 luglio del 1986, l’economista sul quotidiano L’Ora demoliva in un articolo intitolato “I Paesi più virtuosi” uno dei falsi dogmi preferiti dalla vulgata neoliberale che demonizza la spesa pubblica e mette soprattutto sul banco degli imputati l’Italia per il bilancio pubblico.
Caffè scriveva che il 55% del prodotto nazionale lordo destinato alla spesa pubblica poneva l’Italia in posizione assolutamente equilibrata.
Non era affatto vero quello che scriveva l’Economist dei Rothschild che il bilancio pubblico in Italia fosse fuori controllo.
Caffè prim’ancora che all’Italia venisse assegnato il marchio di infamia dei “PIGS” da parte dei quotidiani dell’anglosfera come Il Financial Times e il citato Economist, aveva già smontato la bugia più grande sulla quale si fonderà l’eurismo negli anni 2000.
La menzogna che vuole raffigurare il Sud-Europa cattolico come portatore di una “inguaribile corruzione” a differenza del “retto” Nord-Europa, quando la realtà invece indica che la tanto lodata Germania era la regina dell’economia in nero d’Europa.
Un uomo che diceva similì verità non poteva evidentemente accettare alcun compromesso con gli “incappucciati della finanza”.
La sua voce si sarebbe levata probabilmente anche contro lo squalo del Quantum Fund, George Soros, uomo strettamente legato alla famiglia Rothschild, che sapendo benissimo che Ciampi non avrebbe svalutato la lira, sferrava il suo attacco e intascava miliardi di dollari grazie alla “generosità” dell’ex governatore mai finito, casualmente, sotto le lenti della magistratura.
Se c’era indubbiamente un piano scritto almeno 20 anni prima di Tangentopoli per saccheggiare l’Italia del suo patrimonio, il minuto docente pescarese sarebbe stato sicuramente un intralcio per i predoni dell’euro perché il neoliberismo non tollera l’autorevolezza che smaschera le sue menzogne, ma soltanto la mediocrità che le perpetra.
Serve verità anche su questo professore che rappresentava un filone accademico indispensabile per respingere l’infezione del neoliberismo, ma serve soprattutto impedire che la sua memoria venga associata a quelli che invece sono sempre stati i nemici di Caffè.
Così come nella passata occasione si è definito indispensabile lo sforzo per recuperare la memoria politica di due statisti come Craxi e Andreotti, recuperare quella del professor Caffè sembra essere necessario per ricominciare a costruire una università degna di questo nome.
La casa va costruita dalle fondamenta e la scuola post-keynesiana di Caffè è certamente uno dei mattoni più importanti.