E i palestinesi stanno portando a casa i loro figli in sacchetti di plastica.
Stati Uniti – Gaza. Con Kamala Harris, solo un cambiamento di facciata
La nuova candidata democratica alla Casa Bianca aveva suscitato in una parte dell’elettorato la speranza di un cambio di direzione nella politica estera americana, dopo il sostegno incondizionato dell’amministrazione Biden a Israele dall’inizio della guerra genocida a Gaza. Delle aspettative che si sono presto infrante durante la Convention Dem di Chicago e poi nel corso del dibattito tv tra Donald Trump e Kamala Harris.
Dopo l’invito ai genitori di Hersh Goldberg-Polin, il 23enne israelo-americano preso in ostaggio il 7 ottobre 2023 e ucciso da Hamas, a portare la loro testimonianza sul palco della Convention democratica di metà agosto, gli organizzatori non hanno voluto concedere la stessa opportunità a una voce palestinese di parlare di Gaza, nonostante si fossero detti d’accordo anche i genitori di Hersh. La richiesta, appoggiata da molti circoli democratici, era stata avanzata da “Uncommitted movement”, il Movimento dei Non Impegnati”, elettori che scelgono di non supportare alcun candidato,1, con una raccolta di centinaia di migliaia di firme per chiedere che la voce della Palestina fosse ascoltata alla Convention. Una richiesta sostenuta anche dalla segretaria del partito democratico del Michigan, Lavora Barnes, da Ro Khanna, rappresentante dello Stato della California alla Camera, dalla deputata della Georgia, Ruwa Romman e da molti altri esponenti Dem, tra cui anche Brandon Johnson, sindaco di Chicago, dove si teneva il Democratic National Convention, che ha sottolineato che la Contea di Cook, nell’Illinois, ospita la più grande comunità palestinese-americana degli Stati Uniti.
Tutto inutile visto che i leader del partito non hanno cambiato idea. Cori Anika Bush, deputata dello Stato del Missouri ed esponente radicale dem, durante la protesta dei “non impegnati” all’inaugurazione della Convention, ha invitato la sinistra del partito a non gettare la spugna: “Siamo e resteremo nel partito democratico. Diciamo soltanto: ‘Ascoltateci, perché è importante’”. Un chiaro riferimento al movimento Black Lives Matter, per rivendicare che la vita dei palestinesi conta come quella degli afroamericani.
“Se volete che Donald Trump vinca, allora ditelo”
Poco prima, durante il suo comizio elettorale a Detroit, nel Michigan, Kamala Harris era stata interrotta da alcuni manifestanti che protestavano contro l’attuale linea politica della Casa Bianca nei confronti della Palestina, a cui la candidata democratica aveva risposto: “Se volete che Donald Trump vinca, allora ditelo. Altrimenti, parlo io”2. Un episodio poco incoraggiante sulla futura linea politica che la candidata alla presidenza Usa potrebbe adottare, in caso di elezione, nelle questioni mediorientali.
Secondo alcuni analisti, l’eventuale insediamento di Kamala Harris alla Casa Bianca potrebbe segnare “la fine di un’era in cui i presidenti americani hanno avuto un rapporto personale con Israele”3, come avvenuto in particolare con il presidente uscente Biden. Ma non è quanto dimostrato finora dalla candidata alla presidenza Usa. La piattaforma del partito democratico in vista delle elezioni, redatta sotto l’amministrazione Biden, non è stata modificata di una virgola dopo il ritiro del presidente uscente dalla corsa alla Casa Bianca. Certo, Kamala Harris ha un po’ allentato il giogo dell’incondizionato sostegno americano in cui l’ex presidente Biden e il suo segretario di Stato, Antony Blinken, avevano ingabbiato la guerra a Gaza, dando via libera al premier israeliano Netanyahu così da impedire qualsiasi ipotesi di un cessate il fuoco. Alla Convention di Chiacago, Harris ha mostrato però una maggiore apertura alla causa palestinese, assicurando che non resterà “in silenzio” di fronte alle “sofferenze inaudite” della popolazione di Gaza.
Kamala Harris ha inoltre implicitamente accusato il premier israeliano di essere il principale ostacolo a una risoluzione della crisi. Poco dopo, in un’intervista alla CNN del 29 agosto, la candidata democratica ha sottolineato che “occorre una soluzione con due stati, che dia anche ai palestinesi il diritto alla sicurezza e all’autodeterminazione”. Una dichiarazione che non avrà fatto certo piacere né a Netanyahu, né a gran parte della classe politica israeliana, ma di cui dovranno tenere conto se la futura amministrazione Harris si comporterà in modo diverso dall’amministrazione Biden, che ha lasciato de facto mano libera. Nel corso della stessa intervista, Harris ha però chiarito che, in caso di elezione, continuerà a fornire assistenza militare a Israele, un caposaldo della politica americana in Medio Oriente che ammonta a un costo annuo di 3,8 miliardi di dollari (3,4 miliardi di euro)4.
“Un programma ormai obsoleto”
Quali sono i timori dei leader democratici per mostrarsi così incuranti dell’opinione di una parte del proprio elettorato? Secondo molti commentatori statunitensi, la direzione del Partito democratico non tiene conto del profondo cambiamento in corso all’interno del suo elettorato. Secondo i dati emersi dal sondaggio Gallup, il 44 % dell’elettorato dem oggi è contro la fornitura sistematica di armi americane a Israele, mentre il 25% si dichiara ancora a favore. I giovani universitari non sono i soli a protestare: sono scesi in piazza anche importanti sindacati, come United Auto Workers (UAW), il sindacato americano delle auto, il National Association of Letter Carriers (NALC), quello dei lavoratori postali, l’American Federation of Teachers (Aft), il National Education Association (NEA), quello degli insegnanti e altri, da tempo convinti sostenitori dello Stato israeliano, che hanno chiesto a Biden “la fine immediata dei finanziamenti e del sostegno militare del governo degli Stati Uniti a Israele”. Una tendenza che, in misura minore, si registra anche tra l’elettorato che si dichiara “indipendente”. E allora, si chiede Slate Magazine, come si spiega la sequela di dichiarazioni a sostegno di Israele alla Convention dem?5
L’apparato dem sembra aggrapparsi a un programma ormai obsoleto. Secondo il Middle East Eye6, Kamala Harris, poco al corrente sulla questione mediorientale, sta formando una squadra, guidata al Dipartimento di Stato dal consigliere per la politica estera Phil Gordon, che ha già ricoperto l’incarico sotto i due mandati presidenziali di Barack Obama. Una scelta che incarna l’annunciata continuità dello status quo per quanto riguarda la questione israelo-palestinese. Il consigliere, che ha ricoperto incarichi sempre più di rilievo in tutte le amministrazioni democratiche dopo la presidenza Clinton, continua a ribadire le proposte dei suoi predecessori in politica estera, come se non fosse successo nulla negli ultimi trent’anni. Il 24 giugno 2024, Gordon ha partecipato alla Conferenza di Herzliya, un forum annuale che riunisce i principali ambienti diplomatici e di sicurezza israeliani oltre ad accogliere numerosi ospiti stranieri. Nel corso della Conferenza, Gordon ha fortemente auspicato un rapido accordo su un cessate il fuoco a Gaza, considerando i vantaggi che ne ricaverebbe Israele. Con il linguaggio della diplomazia, Gordon ha criticato de facto il no di Israele al piano Biden per un cessate il fuoco, sottolineando inoltre il crescente isolamento internazionale di Israele, anche negli Stati Uniti, dove “frange rumorose dell’opinione pubblica si dichiarano contrarie a questa guerra”. Il braccio destro e consigliere per la politica estera di Kamala Harris ha poi concluso il suo intervento con un monito:
La verità è che non ci sarà una sconfitta di Hamas a Gaza senza un’alternativa di governo e un piano per la sicurezza – l’abbiamo imparato a nostre spese in Iraq e in Afghanistan.
Secondo Phil Gordon le opzioni possibili sono due: o la ricostruzione della Striscia di Gaza palestinese senza Hamas, oppure:
un conflitto senza fine a Gaza […] insieme a crescenti tensioni e violenze in Cisgiordania: assenza di un orizzonte politico palestinese, a vantaggio di Hamas e altri gruppi terroristici palestinesi, infine l’incombente minaccia di una grave escalation regionale e di un crescente isolamento di Israele sulla scena internazionale. […] Se Israele intraprenderà una roadmap per la fine della guerra, gli Stati Uniti saranno al fianco di Israele in ogni fase del percorso. […] E proprio come credo che sia nell’interesse di Israele perseguire questo percorso positivo… è anche nell’interesse degli Stati Uniti7.
Gordon non ha chiarito però cosa farà Washington nel caso in cui Israele decida di non seguire la roadmap per la fine della guerra. Com’è già avvenuto due mesi e mezzo fa. Da allora non è cambiato nulla: Benjamin Netanyahu ha mostrato scarsa considerazione nei confronti di Biden, di Gordon e dei piani dell’amministrazione democratica.
“Un sostegno militare americano illimitato”
Di fronte alla mancata incidenza delle “pressioni verbali” americane su una tregua ai bombardamenti israeliani e ai massacri della popolazione di Gaza, lo stop alla fornitura di armi è diventato un simbolo dell’impotenza della politica estera della Casa Bianca. Anche la nuova candidata alla Casa Bianca ha ribadito che la vendita di armi non è in discussione da parte della diplomazia statunitense, la vera chiave della “relazione speciale” con Israele. Anche se, negli Stati Uniti, la questione è stata la scintilla che ha dato il via alla mobilitazione per chiedere la fine delle violenze nei confronti della popolazione palestinese.
La candidata democratica sarà in grado di ascoltare quelle proteste? E se sì, quando? Di recente, Peter Beinart, direttore di Currents, la rivista dell’ebraismo progressista americano, ha pubblicato un articolo sul New York Times in cui ha spiegato che l’ostacolo allo stop della fornitura di armi verso Israele non ha nulla a che fare con una eventuale opposizione al Congresso. Secondo Beinart, se l’amministrazione Harris decidesse uno stop, basterebbe… “applicare la legge” americana8. Nel 1997, il Congresso ha approvato una legge che “impedisce agli Stati Uniti di fornire materiale militare alle forze di sicurezza straniere”, nota come Leahy Act (dal nome del suo autore, Patrick Leahy, senatore del Vermont dal 1975 al 2023). La legge proibisce ai Segretari di Stato e della Difesa degli Stati Uniti di sostenere in qualsiasi modo una forza armata straniera che commetta “gravi violazioni” dei diritti umani. Beinart ricorda che la legge è stata usata “centinaia di volte” da Washington, anche contro paesi amici degli Stati Uniti – come il Messico, per esempio. Ma è una legge che non può essere applicata agli eserciti stranieri nella loro interezza, ma solo a singole unità militari se il Segretario di Stato ha affidabili informazioni che tale unità abbiano commesso gravi violazioni dei diritti umani.
La questione riguarda un Paese che, dall’entrata in vigore della legge 27 anni fa, ha combattuto numerose guerre prima di quella in corso a Gaza, con un esercito che ha sganciato, ad esempio, bombe a grappolo o usato armi proibite dal diritto bellico, per di più, contro popolazioni civili (in particolare, a Gaza e in Libano). Beinart fa notare che la legge Leahy “non è mai stata applicata” nei confronti di Israele, lo Stato straniero che riceve, di gran lunga, il più importante sostegno militare annuo degli Stati Uniti da cinquant’anni. Non è stato forse il senatore Leahy a dichiarare che la mancata applicazione della sua legge nei confronti di Israele equivale a screditarla?
Nel corso del dibattito tv con Donald Trump del 10 settembre, Kamala Harris ha continuato con il suo mantra: “Israele ha il diritto di difendersi […] ma è anche vero che sono stati uccisi troppi palestinesi innocenti, bambini, madri. Quello che sappiamo è che questa guerra deve finire”. Se però la candidata alla Casa Bianca ha la sincera intenzione di impegnarsi in una soluzione della questione palestinese, dovrà attenersi a quanto innumerevoli esperti, diplomatici e militari americani sanno da tempo senza mai dichiararlo in pubblico, cioè che per risolvere la questione, a cominciare dalla fine dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi occupati, Washington dovrà cambiare linea politica, imponendo sanzioni concrete ed efficaci nei confronti di Israele. È chiaro a Kamala Harris? Intende farlo? La questione dell’indissolubile “relazione speciale” tra gli Stati Uniti e Israele è stata oggetto di innumerevoli analisi. Alcuni analisti parlano di una naturale alleanza tra il messianismo ebraico e quello evangelico. Altri sottolineano il peso della lobby pro-Israele. Basti dire qui che più gli Stati Uniti inviano liberamente armi ad Israele, che ne fa un uso sempre maggiore, più i contribuenti e il Dipartimento del Tesoro contribuiranno ad incrementare il complesso militare-industriale degli Stati Uniti. Un argomento che ha un forte peso nelle decisioni dei leader americani.
Ma la ragione del sostegno incrollabile di Washington non è legata solo agli interessi delle aziende produttrici di armi. C’è anche il timore che le conseguenze di un indebolimento del peso politico e dell’instabilità di Israele in Medio Oriente possano ricadere sul ruolo degli Stati Uniti nella regione e questo rappresenta, senza ombra di dubbio, un notevole freno alla fine di questa “relazione speciale”. Una relazione di cui sono costantemente vittima i palestinesi. Non c’è alcun presidente americano che non l’abbia capito.
Estratto da: https://orientxxi.info/magazine/stati-uniti-gaza-con-kamala-harris-solo-un-cambiamento-di-facciata,7616