A Bruxelles ancora non si sono ripresi dallo shock.
E’ certamente vero che i dazi di Trump erano attesi, ma quando essi si sono tramutati in realtà, il panico ha iniziato a diffondersi nelle stanze del Berlaymont e nelle varie cancellerie europee.
I media, come loro solito, tacciono le informazioni più importanti.
Non sono gli Stati Uniti a dipendere da un punto di vista strettamente commerciale dall’Unione europea, ma viceversa.
La bilancia commerciale, la differenza tra esportazioni e importazioni, tra i due blocchi non mente al riguardo.
Gli Stati Uniti importano più di quello che esportano verso i 27 Paesi dell’UE, mentre per i 27 si verifica esattamente lo scenario contrario
Questo squilibrio a sfavore degli americani si spiega per delle ragioni precise.
Il potere del dollaro e l’enorme deficit commerciale americano
Il commercio mondiale è stato impostato così per praticamente 80 anni, quando i vincitori della seconda guerra mondiale stabilirono nelle sale dell’albergo Mount Washington a Bretton Woods, una località del New Hampshire circondata dalle cosiddette White Mountains, che il dollaro sarebbe divenuto la valuta di riserva globale.

La conferenza di Bretton Woods
Lo scettro del potere economico passava così dalle mani della sterlina britannica, ex valuta di riserva globale, a quelle di Washington, che diveniva così non soltanto il centro dell’impero militare ma soprattutto anche il cuore dell’impero finanziario.
Era stata ricevuta pienamente la sollecitazione di vari autori e intellettuali quali Thomas Mann e Gaetano Salvemini, entrambi in odore di massoneria, che nel 1941 avevano redatto un manifesto intitolato “La città dell’uomo” nel quale esortavano gli Stati Uniti a prendere sulle proprie spalle la leadership dell’anglosfera, ma soprattutto del governo mondiale che tali ambienti volevano già al tempo costruire.
Winston Churchill, ad esempio, primo ministro inglese e altro massone di elevato rango, chiamava a raccolta le élite mondiali nel 1954 per far sorgere il supergoverno mondiale, ma soltanto la potenza militare ed economica degli Stati Uniti avrebbe potuto rendere possibile una tale aspirazione.
L’ordine finanziario era certamente una parte integrante dell’impero, e ciò spiega perché dopo Bretton Woods, i pagamenti internazionali furono eseguiti attraverso il dollaro americano, all’epoca legato ancora alla parità aurea, il cosiddetto gold standard.
C’è tutt’ora un dibattito tra alcuni economisti sulla effettiva efficienza o meno del gold standard, e generalmente chi sostiene una necessità del ritorno della parità aurea lo fa perché assume una posizione contraria alle monete fiat.
Le monete fiat sono le monete moderne. Sono le valute che non sono legate all’emissione di una materia prima, oro e argento che sia, e possono essere stampate in maniera praticamente illimitata.
All’inizio degli anni’70, gli Stati Uniti avevano sempre più difficoltà a mantenere la parità aurea, e il loro deficit iniziava a superare la quantità di oro a disposizione, fino a quando il presidente Nixon, in contrasto con gli ambienti sionisti, decise di mettere fine al gold standard attraverso il famoso “Nixon shock” del 1973.

Il presidente Nixon
Il dollaro che fino a quel momento si poteva stampare soltanto attraverso un determinato corrispettivo in oro diventa una valuta fiat così come lo divennero le altre monete, e alcuni monetaristi sostengono, erroneamente, che ciò rappresenti un male perché questa corrente reputa la creazione di moneta causa dell’inflazione, la quale in realtà dipende prettamente da altri fattori.
Gli esempi per dimostrare che non c’è una relazione tra stampa della moneta e l’inflazione sono davvero infiniti, ma se ne può citare, tra i molti, uno in particolare che riguarda la quantità di euro stampata dalla BCE, banca centrale atipica non nelle mani degli Stati, dal 2008 fino al 2021.
Si parla di trilioni e trilioni di euro emessi dalla BCE tramite il famoso QE, ma non un euro di questi soldi negli anni passati ha contribuito a far schizzare l’inflazione verso l’alto, quando piuttosto l’Europa ha sofferto per molti anni il fenomeno opposto della deflazione.
A far salire l’inflazione può essere, ad esempio, una diminuzione della disoccupazione e un aumento dei posti di lavoro, ma questo scenario non è affatto negativo se l’aumento dei prezzi resta in condizioni accettabili e soprattutto se i salari sono indicizzati come avveniva al tempo della compianta scala mobile, uccisa dalla triade sindacale e dal governo Amato, uomo che permise il saccheggio del Britannia, nel 1992.
Il dollaro da quell’istante in poi ha preservato ad ogni modo il suo status di valuta di riserva globale soltanto grazie alla geopolitica.
Nixon diede vita assieme all’Arabia Saudita all’accordo che fece nascere il cosiddetto petrodollaro, in base al quale le vendite di petrolio saudita, che vanta le maggiori riserve al mondo, potevano essere effettuate soltanto in dollari.
Non esiste da allora un’altra ragione se non questa per la quale il petrolio si paga in dollari.
Gli Stati Uniti si sono di conseguenza ritrovati ad avere in tasca per 80 anni la valuta del commercio internazionale e questo ha portato inevitabilmente dei gravi squilibri nella loro bilancia commerciale, perché potevano comprare tutte le merci che volevano, avendo la possibilità di stampare la moneta attraverso la quale fare i pagamenti, ma il prezzo da pagare è stato quello della progressiva perdita dei posti di lavoro e dell’indebolimento del loro settore manifatturiero.
L’avvento della globalizzazione e la fine dell’industria Occidentale
Il fenomeno è stato esacerbato ancora di più negli anni’90. Dopo il crollo del muro di Berlino, le menti del mondialismo avevano già stabilito che il mondo avrebbe dovuto subire la cosiddetta globalizzazione.
La globalizzazione non è altro che la abnorme concentrazione delle risorse nelle mani di una ristretta élite di oligarchi a discapito della classe lavoratrice, letteralmente travolta dall’apertura dei mercati e dalla rimozione di ogni barriera commerciale.
E’, in termini ancora più espliciti, la manifestazione più selvaggia e spinta del neoliberismo concepito sul finire degli anni’70 dai Chicago Boys di Milton Friedman, membro di rilievo della società segreta della Mont Pelerin.
A dare la spinta decisiva all’avvio di tale processo, è stato un uomo che già nel 1991 era stato scelto proprio dal Bilderberg per diventare presidente degli Stati Uniti, ovvero Bill Clinton, all’epoca governatore dell’Arkansas.
Clinton una volta divenuto presidente prepara il terreno per l’apertura dei mercati ed è l’11 ottobre del 2000, sul finire del suo secondo mandato, che consente alla Cina di entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Clinton firma gli accordi commerciali che consentono alla Cina di entrare nell’OMC
Ancora oggi rileggere le parole dell’ex presidente e sodale del pedofilo Jeffrey Epstein, sui “vantaggi” che avrebbe portato la Cina al commercio mondiale fa comprendere quanto siano sfacciate le bugie dei vari globalizzatori.
Clinton annuncia un’era di “straordinaria opportunità” per l’economia americana, che come quella europea, si vide in realtà travolta da merci a bassissimo costo e di bassa qualità che a poco a poco avevano iniziato a distruggere tutto il settore manifatturiero dei Paesi europei e degli Stati Uniti, già duramente provato per avere il dollaro nelle proprie tasche.
La globalizzazione di Davos: il trionfo dell’oligarchia
La globalizzazione fa purtroppo esattamente quello per il quale era stata concepita.
Trasferisce una enorme quantità di ricchezza nella mani delle varie multinazionali e corporation che già al principio degli anni’70 stavano acquisendo delle dimensioni sempre maggiori, tanto da diventare in termini economici persino più potenti degli Stati nazionali.
Il XX secolo è stato testimone di un fenomeno inedito nella storia.
Si è verificato lo svuotamento progressivo della sovranità degli Stati nazionali a tutto vantaggio di quei gruppi finanziari, divenuti i veri padroni della politica internazionale.
La seconda guerra mondiale è stata in tal senso quella crisi “perfetta” per accelerare il trasferimento dei poteri dal piano nazionale a quello internazionale.
Le organizzazioni sovranazionali sorte dopo la seconda guerra mondiale quali NATO, ONU, FMI, Banca Mondiale, CEE ed Unione europea avevano già in nuce l’idea di privare gli Stati dei loro poteri per consegnarli a queste sovrastrutture nelle mani di banche private e multinazionali.
La globalizzazione agisce come un sicario per conto di questa struttura di potere economico e finanziario.
Uccide gli Stati nazionali, rade al suolo le loro classi medie attraverso questo trasferimento del capitale verso Paesi a basso costo del lavoro, quali la citata Cina, il Vietnam, la Cambogia, e il Bangladesh, ovvero gli enormi bacini di lavoratori semi-schiavi a bassissimo costo sfruttati dai vari marchi dell’abbigliamento mondiale quali la famigerata Nike senza contare anche gli altri gruppi della moda che parlano di made in Italy, quando i loro prodotti sono fatti nell’Europa dell’Est o proprio nel Sud-Est asiatico.

Una fabbrica della Nike in Vietnam
Si spiega così la reazione di panico non solo delle borse, ma di tutti gli “imprenditori” da operetta che hanno saputo soltanto delocalizzare, per poi riesportare qui i loro prodotti vendendoli esattamente allo stesso prezzo di quello che se fossero stati prodotti qui.
I profitti sono mostruosi. Se il 10% del mondo si è ritrovato ad avere più del 50% delle risorse in mano è proprio grazie alla globalizzazione che aveva come scopo quello di costruire una società con solo due classi, quali appunto gli oligarchi dei vari fondi di investimento che hanno nelle proprie mani tutte le multinazionali più grosse del pianeta grazie ai famigerati fondi di BlackRock e Vanguard, nei quali si trovano sempre le solite famiglie.
Sono i famigerati Rothschild, Rockefeller, DuPont, Morgan, Vanderbilt e Bush.
Sono loro i veri vincitori della globalizzazione e sono loro i veri padroni delle democrazie liberali.
Al di sotto di questi predoni si trova invece una moltitudine di poveri disoccupati o sottoccupati che vengono sostituiti fuori dai confini dagli schiavi stranieri, mentre in patria ci sono invece gli immigrati dei Paesi afro-asiatici che tolgono agli italiani, i cosiddetti “autoctoni”, anche la possibilità di fare quei lavori manuali perché i primi sono molto meno costosi dei secondi.
Gli ipocriti di Confindustria lo dissero qualche tempo fa.
Se si rinuncia agli immigrati, si fermano le fabbriche, quando in realtà l’unica rinuncia che tali “imprenditori” da strapazzo sarebbero costretti a fare sarebbe quella di perdere il loro esercito di riserva a basso costo che gli consente di non assumere italiani più costosi e di più alta qualità, sempre ovviamente nascondendosi dietro la trentennale bugia che gli italiani non vorrebbero più fare determinati lavori pesanti.
La bugia è stata smascherata più volte.
Non si contano le volte nelle quali gli italiani si sono presentati per fare, ad esempio, la famosa vendemmia, ma i vari imprenditori vinicoli preferiscono assumere stranieri a basso costo perché oltre ovviamente a costare meno, sono anche molto più ricattabili di un italiano.
Il caporalato stesso così tanto nella bocca degli organi di stampa quali Repubblica è un fenomeno della globalizzazione e quei sepolcri imbiancati della CGIL che si stracciano le vesti per le morti degli schiavi indiani nel Pontino, sono gli stessi che invece di difendere il lavoro degli italiani lo hanno portato tra le fauci del capitale e di quelle multinazionali come la Monsanto (BlackRock) che hanno fatto piazza pulita dell’agricoltura italiana.
Il sindacato in tale assalto si è rivelato indiscutibilmente il miglior alleato del capitale che mentre era lì pronto a pugnalare al cuore il lavoro era aiutato dalla triade sindacale che gli teneva ferma la mano prima di affondare la lama.
I risultati della globalizzazione sono stati devastanti e sono sotto gli occhi di tutti.
Non solo ha contribuito a far sparire il made in Italy e le eccellenze uniche del tessile italiano nel mondo, ma ha sfigurato le città popolate da questi negozietti di cinesi evasori, praticamente mai disturbati dall’agenzia delle Entrate, e da quegli alimentari di pakistani e bengalesi che a loro volta non pagano mai un euro di tasse.

L’invasione dei negozi cinesi nel centro di Roma
Lo “Stato” è così diventato il primo nemico dei contribuenti italiani e il miglior amico degli evasori stranieri, ma la carta stampata nelle mani degli oligarchi ovviamente preferisce mettere sul banco degli imputati il pasticciere o l’idraulico, senza disturbare gli evasori stranieri e senza disturbare ovviamente i vari “editori” dei quotidiani che hanno portato all’estero illegalmente fiumi di denaro sporco.
Il fisco se si tratta di perseguire gli squali, dorme sonni tranquilli.
In Italia, il fenomeno della globalizzazione è stato poi ancora più esacerbato dal fatto di non avere nemmeno una moneta nazionale, e quindi il lavoro è stato attaccato su due fronti: quello delle merci cinesi a bassissimo costo da un lato, e dall’altro quello della impossibilità di svalutare il cambio della moneta per consentire almeno di difendersi dai mercati attraverso una moneta più debole.
L’Italia è stata letteralmente paralizzata.
Gli è stata tolta l’industria pubblica, enorme ricchezza costruita con lo Stato imprenditore, gli è stata tolta la banca centrale dopo il divorzio Tesoro-Bankitalia, gli è stata tolta la sovranità monetaria dopo l’adozione dell’euro, e infine gli è stata tolta la possibilità di competere sui mercati attraverso l’ingresso della Cina nell’OMC che ha iniziato a conquistare l’Europa a suon di acquisizioni statali di Pechino proibite invece dall’Unione europea.
In altre parole, Bruxelles ha sanzionato l’intervento pubblico italiano nell’economia ma invece plaude a quello pubblico straniero.
Cos’altro non è se una chiara strategia dell’annichilimento delle risorse economiche nazionali?
Stare dentro l’UE non è altro che un modo per consegnare la propria nazione a chi vuole depredarla, e soltanto la criminale classe politica della Seconda Repubblica poteva consentire tale ruberia di massa.
Donald Trump attraverso l’imposizione dei dazi mette fine a tutto questo.
Finisce l’economia della speculazione e inizia il ritorno dell’economia reale, quella che non si trasferisce in Vietnam alla ricerca di schiavi, ma quella che invece assume lavoratori sul posto e fa crescere un Paese, costruendo una classe media solida e prospera, importante anche per una sana demografia.
Il forum di Davos invece desiderava lo scenario opposto, come ben spiegato in suo documento riservato del 1991 nel quale raccomandava il depopolamento globale seguendo le orme del manifesto del club di Roma, il famigerato “I limiti della crescita” del 1972.
Il globalismo vuole un mondo abitato da poco più di 500 milioni di persone, nel quale i pochi “eletti” dei circoli mondiali sono i signori assoluti e indiscussi.
I vari “artisti” della delocalizzazione sono furiosi per questa ragione.
Nel giro di un giorno, i vari miliardari globalizzatori hanno visto andare in fumo qualcosa come 208 miliardi di dollari.
E’ finita definitivamente un’epoca.
Gli oligarchi hanno dunque dato mandato agli organi di stampa, assieme all’altro ramo della falsa informazione alternativa, di dire che i dazi danneggerebbero il cittadino medio, quando in realtà sono gli esportatori e i delocalizzatori ad essere colpiti perché adesso saranno costretti obtorto collo a ripensare le loro strategie e prendere in considerazione il ritorno alla produzione nei Paesi di origine ed a investire di più sulla domanda interna.
Trump sta togliendo così la prima leva delle delocalizzazioni agli oligarchi che presto dovranno fare i conti anche con la perdita della seconda leva, quella dei migranti che alcuni Paesi europei hanno già iniziato a rimpatriare.
Sta finendo quindi non soltanto l’era inaugurata degli anni’90 con l’ingresso della Cina nell’OMC, ma anche quella del dollaro come valuta di riserva globale perché è chiaro che i dazi ridurranno le importazioni americane e conseguentemente l’uso del biglietto verde negli scambi mondiali.
Si può apprezzare ancora meglio qui la strategia di Trump che rilascia ai media mainstream qualche dichiarazione depistante nella quale si dichiara ostile ai BRICS per via della loro volontà di dedollarizzare il mondo, quando poi nei fatti la politica di Trump si ritrova ad essere perfettamente allineata con il mondo multipolare, perché né il primo né il secondo hanno alcun interesse a preservare lo status del dollaro come valuta di riserva globale.
Trump vuole disfarsi del dollaro pesante perché vuole costruire posti di lavoro in patria, mentre i BRICS non vogliono essere più assoggettati all’ex dominio finanziario dell’anglosfera fondato sulla valuta americana.
Il mondo è testimone di una deglobalizzazione che era possibile vedere già ai tempi del primo mandato di Trump, che già allora aveva fatto capire che l’ordine finanziario uscito da Bretton Woods era definitivamente volto al termine.
Gli Stati Uniti da potenza garante della globalizzazione si sono tramutati in una forza al servizio della propria sovranità nazionale e i vari club di Washington che decidevano in anticipo i presidenti americani quali il CFR, il Bilderberg, e la Commissione Trilaterale si sono trovati per la prima volta dal 1945 privi di potere, emarginati e osteggiati dal presidente degli Stati Uniti che un tempo era il loro emissario.
Il passaggio del ritorno agli Stati Uniti sovrani può dirsi compiuto, e la controrivoluzione politica ed economica di Trump è quanto di più utile possa essere anche ai lavoratori italiani ed europei, che da troppo tempo sono soffocati dall’euro, dall’UE e dalla globalizzazione.
La deglobalizzazione in fin dei conti significa proprio questo. Significa trasferire l’enorme ricchezza che il capitale ha accumulato nelle mani della classe media polverizzata da tale processo.
Significa, in altre parole, la fine della supremazia della finanza e delle sue sovrastrutture e il conseguente ritorno agli Stati nazionali finalmente tornati pienamente sovrani e non soltanto ridotti a simulacri giuridici.
Per la prima volta, a distanza di anni, il futuro sembra davvero non essere a tinte fosche come lo è stato il passato degli ultimi decenni.