Il gruppo dei Brics esiste da diversi anni, ma di recente è tornato alla ribalta per una serie di operazioni di allargamento che sembrano poter dare la spinta giusta per ‘scalzare’ il primato dell’Occidente a guida americana in varie dinamiche globali. Facciamo il punto della situazione, cercando di capire quanto ‘pesa’ questo blocco di Paesi in termini di economia, potenza militare e politica.
La nascita del concetto di Brics – una sigla che indica Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – risale al lontano 2002. Fu Jim O’Neill, finanziere di Goldman Sachs, a coniare questa espressione per indicare le economie emergenti di quel periodo (a cui il Sudafrica si aggiunse però nel 2010, ndr). Si trattava, cioè, dei Paesi in cui era conveniente investire perché avevano prospettive di crescita molto forti, grazie alle loro caratteristiche demografiche ed economiche. Da allora molte cose sono cambiate ed è ragionevole chiedersi se i Brics, a cui negli ultimi tempi hanno chiesto di unirsi anche altri Paesi, abbiano oggi un ‘peso specifico’ sufficiente non solo a creare un blocco economico solido, ma anche a contendere il primato del sistema globale a guida Usa. In gioco c’è quello che a Pechino e Mosca chiamano il ‘mondo multipolare’, in grado di contestare il sistema unipolare a guida statunitense nato alla fine della Guerra Fredda.
Demografia
Il numero è potenza. Questo è vero sotto molti aspetti e non c’è dubbio che quando i Brics fecero la loro comparsa nel dibattito erano i Paesi più promettenti da questo punto di vista. Vediamo quanto pesano oggi in termini di popolazione in base ai dati del 2021, gli ultimi disponibili e certi. La Cina mantiene il primato sia fra i Brics che a livello mondiale con 1,412 miliardi di abitanti, seguita a breve distanza dall’India (1 miliardo e 400 milioni di abitanti). Tuttavia proprio a metà del mese di aprile 2023 sono iniziate a circolare indiscrezioni significative: l’India avrebbe già superato la Cina, con una differenza che si aggirerebbe fra i 2 e i 3 milioni di abitanti.
Segue poi il Brasile e i suoi 214 milioni di abitanti, la Russia con 143 milioni e il Sudafrica (59 milioni di abitanti). I Brics, a cui vanno aggiunti vari Paesi in fase di adesione, comprendono oggi oltre il 43% della popolazione mondiale.
Economia
Il concetto di Brics, come già detto, è innanzitutto una categoria economica. Prendendo in analisi il Pil, sempre in riferimento al 2021, si osserva che il primato spetta di nuovo alla Cina con circa 17mila miliardi di dollari. Segue nuovamente l’India, con circa 3mila miliardi di dollari. Terza la Russia, con 1.700 miliardi di dollari, e infine Brasile (1.600 miliardi) e Sudafrica (420 miliardi). Insieme, tutti i Paesi del blocco rappresentano il 20% del Pil mondiale, e circa il 16% del commercio internazionale.
Spesa militare
Nessun Paese al mondo, com’è noto, ha una spesa militare minimamente paragonabile a quella degli Stati Uniti, che secondo i dati del Sipri di Stoccolma, nel 2021 hanno speso per il comparto circa 800 miliardi di dollari, pari al 3,2% del loro Pil (che è il più alto al mondo). La Cina, primo Paese fra i Brics in questa classifica, ha speso nello stesso periodo 293 miliardi di dollari (pari all’1,7% del suo Pil). Seguono l’India, con 76 miliardi (2,7% del Pil), la Russia (70 miliardi pari al 3,1% del Pil), il Brasile (19 miliardi) e il Sudafrica, che con i suoi 4,3 miliardi spesi non è neanche fra i primi 20 Paesi al mondo (tra i quali, per intenderci, c’è anche l’Italia all’11esimo posto).
Capacità militare
Quando si parla di potenza militare, però, occorre considerare non solo i numeri in forma bruta ma anche altri aspetti, come le capacità produttive, le tecnologie e la disposizione sul globo di asset in grado di influenzare gli equilibri. Stati Uniti e alleati, da questo punto di vista, mantengono un primato piuttosto incontestabile. Lo abbiamo visto nella guerra in Ucraina, dove all’indiscutibile preponderanza nel numero di uomini e mezzi impiegati dai russi, Kiev ha risposto con la strategia e con l’utilizzo di mezzi militari forniti dall’Occidente – droni, armi anticarro e lanciamissili – che hanno ribaltato le sorti di un conflitto che doveva durare – nelle intenzioni di Mosca – al massimo un paio di settimane.
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Usa e alleati, tra cui Francia, Italia, Turchia e Corea del Sud, sono ancora molto avanti rispetto ai concorrenti cinesi e russi per quanto riguarda il cosiddetto know how, cioè la capacità di produrre tecnologie in grado di creare un vantaggio sugli avversari. Come evidenzia un’analisi del New York Times, la guerra in Ucraina ha portato nel Paese alcune delle armi più sofisticate e avanzate al mondo anche se spesso le titubanze nel fornire questi dispositivi derivano proprio dal timore che i russi possano carpirne le tecnologie dopo averli catturati al nemico.
Capacità nucleare
A queste considerazioni si aggiunge il dossier nucleare. Tre dei nove Paesi dotati di armi atomiche fanno parte dei Brics. Si tratta di Russia (prima al mondo con quasi 6.000 testate), Cina (350 testate), e India (160 testate). Gli Stati Uniti possiedono 5.428 armi atomiche, alcune delle quali in Turchia, Italia, Belgio, Germania e Paesi Bassi. Mosca e Washington rappresentano da sole il 90% del potenziale nucleare bellico del pianeta. Della lista fanno parte anche Francia (290 testate), Regno Unito (225), Pakistan (165), Israele (90) e Corea del Nord (testate stimate fra le 20 e le 50 unità).
Gli asset nel mondo
A livello planetario, gli Usa hanno intessuto il loro impero globale sul posizionamento strategico di basi e asset in grado di mantenere, innanzitutto, il controllo dei grandi traffici oceanici da cui passano i principali flussi commerciali del mondo. Il fianco occidentale della Russia, se n’è parlato molto nell’ultimo anno, è cinto dall’Alleanza atlantica. La politica di contenimento della Cina nel Pacifico è imperniata sulla presenza nell’area di alleati di ferro degli Stati Uniti come Giappone, Corea del Sud, Filippine e Australia. Il Medio Oriente ospita basi americane in vari Paesi, tra cui Qatar e Arabia Saudita. In Africa, gli Usa dispongono di piazzeforti in Sahel, Libia e nel Corno.
Controversie, politiche e non solo
I Brics sono tornati al centro dell’attenzione di recente, dopo che altri Paesi hanno chiesto di aderire al loro sistema economico: Argentina, Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Messico, Pakistan e Venezuela. La capacità di questo blocco – che formalmente non è un’organizzazione internazionale – di creare un’alternativa politica e militare a quello euro-atlantico è molto discutibile sotto vari aspetti. Il primo è senza dubbio il fatto che i principali Paesi che ne fanno parte hanno interessi diversi, se non inconciliabili, in tutta una serie di ambiti. Un esempio è la relazione fra Russia e Cina, che al netto dei proclami pubblici non si considerano affatto alleati.
Che gioco fa l’India
Altro caso emblematico è quello dei rapporti tra la stessa Cina e l’India, con quest’ultima che presto, al netto dei numeri ancora ufficiosi, supererà la prima come peso demografico (con preoccupazione da parte di Pechino). Tra i due Paesi esistono dispute territoriali, che riguardano anche e soprattutto la sovranità del Tibet. Nella partita si inserisce anche il Pakistan, che con l’India è in stato di guerra latente da anni (con tanto di armi nucleari su entrambi i fronti), e che nonostante questo vuole entrare a far parte dei Brics. Insomma, anche nel blocco euroatlantico esistono differenti agende, ma non tensioni di questo tipo pronte ad esplodere da un momento all’altro. L’India, infine, fa parte del cosiddetto Quad, un’alleanza informale con Australia, Giappone e Stati Uniti con lo scopo di contenere l’espansionismo cinese nella regione dell’Indo-Pacifico.
La paura della Cina
Un altro elemento da considerare è che il club dei Brics, principalmente un fronte economico, è dominato inevitabilmente da un egemone: la Repubblica popolare cinese. Per Paesi anche remoti, come ad esempio il Brasile, può far comodo attirare prodotti e investimenti cinesi, ma tutti hanno ben presente il rischio di rimanere schiacciati dal peso del Dragone, Russia in primis. La Cina, infatti, è una potenza manifatturiera colossale che punta su serialità e quantità, a differenza degli Usa che invece producono ed esportano solo prodotti super specifici e ad alto valore aggiunto. Nella logica imperiale, Washington lascia che siano i suoi partner a produrre, in cambio dell’ombrello di sicurezza offerto dal dispositivo militare.
La ‘fine’ del dollaro
In conclusione, vale la pena fare riferimento alla questione dello yuan, la moneta cinese con cui si pensa di sostituire il dollaro nelle transazioni internazionali. È uno dei punti concordati da Xi Jinping e Vladimir Putin nel loro ultimo incontro a Mosca, ma Pechino punta su questo tema anche con altri interlocutori. L’obiettivo è quello di ridurre i danni provocati da eventuali future sanzioni, a cui la Cina andrebbe incontro, ad esempio, qualora invadesse Taiwan.
Non è un’idea particolarmente nuova, considerato che già nel 2014 la rivista Forbes sosteneva che il nuovo sistema finanziario e monetario dei Brics “minacciava l’egemonia del dollaro americano”. La cosa, con tutta evidenza, non si è verificata. Uno dei motivi, forse il più scontato, è che le imprese globali che si occupano di export preferiscono una moneta solida e stabile per le transazioni. Invece il valore dello yuan è, per così dire, artificiale. Determinato cioè d’autorità dallo Stato. In generale, invece, la forza di una valuta dipende dalla sua domanda e offerta nei mercati dei cambi, dai tassi di interesse della banca centrale, dall’inflazione e dalla crescita dell’economia interna.
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