Qualcuno si aspettava forse che Emmanuel Macron tirasse fuori un coniglio dal cilindro, e invece dall’armadio della vecchia e consumata republique francese è uscito l’abito usato di François Bayrou.
Bayrou è la scelta del presidente francese per provare ad uscire da uno stallo durato diversi giorni dopo il voto di sfiducia nei confronti dell’ex primo ministro Barnier.
L’uomo scelto da Macron è uno dei suoi mentori, per così dire, uno dei suoi consiglieri più stretti già ai tempi del suo primo mandato da presidente nel 2017, quando si aprirono le porte dell’Eliseo per quello che veniva definito l’uomo nuovo della politica europea.
Chi comanda in Francia
La genesi politica di Macron però non è casuale e la sua salita al potere aiuta a comprendere chi tira davvero i fili della democrazia in Francia e in Europa.
A costruire il personaggio politico di Emmanuel Macron sono stati ambienti molto altolocati che sono certamente quelli che già gli consentirono di lavorare per il ramo francese della famiglia Rothschild, vera deus ex machina della politica francese che per tutta la storia moderna della Francia è stata il vero potere decisionale di ultima istanza a Parigi.
Non si diventava e non si diventa presidenti della republique senza prima aver avuto la benedizione dei potenti banchieri di Francoforte che dopo la morte del loro capostipite avvenuta nel 1812, Amschel Mayer, si sparsero in diversi Paesi europei per estendere ancora di più la loro influenza e il loro potere sulla monarchie europee, divenute poi in larga parte repubbliche.
Macron però ha avuto anche un altro mentore, ancora più importante di Bayrou, quale Jacques Attali, il filosofo di origini ebraiche che è sempre stato l’eminenza grigia della politica francese sin dai primi anni’80.
Non aveva importanza se il politico che diventava il capo di Stato francese provenisse dalle fila della cosiddetta destra moderata o dalla sinistra progressista.
Dietro ogni presidente francese, sin dai tempi del socialista Mitterand, c’era lui: Attali.
Jacques Attali a fianco dei presidenti francesi degli ultimi 40 anni
Attali può essere definito certamente come l’uomo che sussurra ai presidenti della Francia, e questi bisbigli sono gli ordini che la voce dei Rothschild francesi vuole far giungere alle orecchie dei presidenti, che in quest’ottica si ritrovano ad essere soltanto dei portavoce, dei meri esecutori di ciò che è stato già scritto sul tavolo del globalismo e della finanza internazionale.
E’ in questo milieu che Macron viene allevato e cresciuto, e la sua controversa storia con l’attuale consorte Brigitte è la perfetta cartina di tornasole di come funzionano i meccanismi della liberal-democrazia in Francia, e più in generale in tutta l’Europa.
Il presidente francese conosce infatti sua moglie nel 1993 quando questa era la sua insegnante ai tempi del liceo, e Macron inizia una relazione con lei, quando quest’ultima, già sposata con il banchiere André Auziere, aveva 39 anni e lui soltanto 15, nel pieno dell’adolescenza, e qualcuno, correttamente, ha ravvisato che questa relazione può definirsi a tutti gli effetti come pedofila.
Brigitte Trogneux, nome da nubile della signora Macron, aveva però entrature potenti e nonostante lo scandalo avesse tutti i requisiti per esplodere, riuscì a soffocarlo grazie alle sue amicizie in alto, mentre intanto apriva le porte dei salotti che contavano al suo futuro marito che sposerà nel 2007.
Emmanuel entra a lavorare per la banca Rothschild nel 2007 attraverso i soliti buoni uffici della moglie, e ovviamente attraverso l’indispensabile contributo di Attali che lo volle nella sua commissione per la crescita francese nel 2007.
Era in corso la preparazione in vitro di un delfino della finanza ebraica accuratamente selezionato sin dagli anni giovanili e portato poi nei consessi dei gruppi mondialisti che contano, come il gruppo Bilderberg, il quale aveva già deciso anni prima che Emmanuel Macron sarebbe divenuto presidente della Repubblica, poiché questi aveva tutte le caratteristiche richieste per servire gli interessi di coloro che contavano in quel mondo.
Si deve immaginare infatti la democrazia liberale come un laboratorio, nel quale i vari “ricercatori” studiano e coltivano il prototipo politico che serve meglio i loro interessi, e una volta che il “prodotto” è stato adeguatamente testato, questo viene rilasciato sul mercato elettorale.
Gli elettori si trovano di fronte qualcosa già selezionato e preparato con largo anticipo dai signori del potere in questo sistema.
Ciò spiega anche tutta la campagna stampa che ha accompagnato Macron.
Macron è stato descritto come il salvatore d’Europa, o meglio dell’UE, perché sulle sue spalle gravava l’onerosa missione di salvare non solo l’Unione, ma di trasformarla in quella che il conte Kalergi voleva, ovvero i tanto decantati Stati Uniti d’Europa.
Negli anni della sua prima presidenza, qualcuno arrivò persino a dire che lo storico asse franco-tedesco scelto per reggere le fragili fondamenta dell’UE si stesse spostando sempre di più verso il baricentro di Parigi, anche perché la parabola politica di Angela Merkel era entrata già in declino e la sua carriera politica si avviava verso la conclusione.
I piani originari delle élite europee non sono però affatto andati come previsto.
Se è vero che Francia e Germania hanno firmato nel 2019 il trattato di Aquisgrana, città scelta per evocare il sacro romano impero, con il quale la moderna UE poco ha a che spartire, è altrettanto vero che da allora Parigi e Berlino sono rimaste invischiate in una profonda crisi politica che sta sempre di più erodendo la stabilità dei due Paesi.
Lo zenit si è probabilmente raggiunto quest’anno. La Francia dall’inizio del 2024 ha già avuto quattro primi ministri, e non è affatto certo che Bayrou riesca ancora a prolungare di molto l’inizio di questa zoppicante legislatura, partorita soltanto lo scorso luglio, dopo che Macron stesso aveva indetto elezioni parlamentari anticipate all’indomani della sonora sconfitta alle europee.
Bayrou più che un premier fatto per durare una intera legislatura appare più come un traghettatore, una di quella soluzioni che si adotta per navigare a vista, nella speranza prima o poi che la buriana cessi e torni il sereno.
Il futuro per la Francia liberale però appare tutt’altro che sereno. All’orizzonte si affaccia il ritorno ufficiale di Trump e l’ostilità dichiarata di quella potenza, gli Stati Uniti, che sono stati in qualche modo dal dopoguerra in poi i veri garanti della costruzione del cantiere dell’Unione.
Gli Stati Uniti ai tempi dell’impero avevano tutto l’interesse a far sì che gli Stati europei cedessero la loro sovranità a favore di una sovrastruttura “europea”, in quanto il disegno ultimo era quello di costruire una governance mondiale alla quale poi sarebbero stati assegnati tutti i poteri di cui un tempo disponevano gli Stati nazionali.
L’accentramento a favore delle varie organizzazioni sovranazionali e del capitale internazionale è stato il leitmotiv che ha scandito la storia di tutto il ‘900 e i propositi dei suoi signori erano quelli di giungere al passaggio finale e ultimo.
Il trasferimento appunto di ogni sovranità nazionale verso la governance, ma i piani, come detto poco fa, non sono andati nella direzione desiderata.
Il fallimento della farsa pandemica, concepita proprio per inaugurare un totalitarismo globale, ha finito per accelerare il processo contrario e ora l’asse franco-tedesco sembra sempre più debole e incapace di uscire vivo da questa fase della storia.
La profonda crisi della Germania
A Berlino la situazione sembra persino più fosca di quella che già non potrebbe essere a Parigi.
Le elezioni anticipate non sono solo una ipotesi. Sono una certezza. L’uscente cancelliere tedesco, Scholz, ha fallito come previsto l’appuntamento della fiducia parlamentare e la Germania adesso si recherà alle urne il prossimo 23 febbraio.
Dare uno sguardo ai sondaggi non è un esercizio che aiuta molto. L’intero sistema politico tedesco, non differentemente da quello francese e italiano, è il riflesso dell’espressione di determinati poteri.
Non esistono partiti attualmente sulla scena nazionale in grado di farsi davvero interpreti delle istanze popolari, e non si considerano da queste parti il Fronte Nazionale di Marine Le Pen e Alternativa per la Germania come due valide risposte alla crisi delle democrazie liberali per due semplici ragioni.
La prima è che il Fronte ha perduto da tempo la sua spinta antisistema da quanto il partito è passato nelle mani di Marine che l’ha strappato quasi a forza al padre Jean Marie, il quale non aveva alcuna intenzione di abiurare al suo credo politico.
Jean Marie non aveva timore a denunciare le bugie del culto olocaustico e per questo si è preso anche una condanna penale, perché nelle democrazie liberali si può pronunciare tranquillamente ogni tipo di bestialità contro la religione cristiana, ma guai soltanto a dire qualcosa che possa irritare i veri padroni di questi sistemi politici, quali le solite massonerie e il mondo sionista ed ebraico
Jean Marie Le Pen assieme a sua figlia Marine
Marine in tal senso è servita a compiere una “normalizzazione”, per così dire. Il Fronte andava anestetizzato e trasformato in un normale partito di destra liberale e la figlia di Jean Marie è riuscita perfettamente nella sua missione.
Sparito ogni riferimento di uscita dall’euro, la moneta pensata per essere il randello dei salariati, è cambiata anche la posizione sull’olocausto e soprattutto su Israele, con il quale il Fronte Nazionale ha allacciato stretti rapporti.
Il partito oggi non è molto differente dal vecchio UMP di Sarkozy, storico inquilino dell’Eliseo, e primo presidente francese di origini ebraiche.
La seconda ragione è che Alternativa per la Germania (Afd) non sembra discostarsi di molto dal paradigma del FN francese divenuto poi Rassemblement National.
Se è vero che Afd non ha abbandonato almeno nelle dichiarazioni ufficiali la sua presunta intenzione di uscire dall’UE e dall’euro, sussistono forti dubbi per pensare che questo partito dia effettivamente un seguito a quanto dichiarato.
Guidato da Alice Weidel, ex dipendente di Goldman Sachs e lesbica che cerca almeno in apparenza di distanziarsi dal mondo LGBT per non minare troppo la credibilità delle sue posizioni conservatrici, Afd però è forse persino più integrata nel mondo sionista della stessa Marine Le Pen.
Alice Weidel
Alternativa per la Germania offre a Israele la sua più completa abnegazione e diversi ebrei tedeschi hanno espresso il loro supporto nei confronti di questo partito, consci che non c’è nulla da temere da questa formazione, in quanto essa è una creatura sfornata dal loro laboratorio politico.
L’Europa vede un po’ ovunque il ripetersi di questo fenomeno.
E’ una sorta di fabbrica dei cloni che sforna partiti come Afd, il Rassemblement di Marine Le Pen, la Lega di Salvini e Vox in Spagna, ognuno dei quali fa del sionismo e della sottomissione allo stato ebraico la sua cifra politica, ed appare chiaro, almeno per gli osservatori più ludici, che non c’è possibilità di tornare realmente sovrani attraverso questi partiti, in quanto il loro scopo è quello di fungere da opposizioni controllate che servono a impedire ogni cambiamento radicale.
In Italia però se la Lega assolveva pienamente a questa funzione almeno fino al 2019, oggi tale partito è definitivamente estinto, poiché è stato costretto a gettare la maschera con l’inizio della farsa pandemica, alla quale il Carroccio ha dato il suo pieno sostegno.
Il partito che sulla carta avrebbe dovuto opporre la più strenua resistenza alle restrizioni è stato non solo quello che le ha appoggiate, ma anche quello che ha persino perorato la causa di Mario Draghi a palazzo Chigi, provando a mascherare il suo tradimento attraverso la indecente bugia di Draghi divenuto “sovranista”.
A giudicare dalle reazioni dei suoi ex elettori, la bufala è stata respinta al mittente nonostante tutti gli sforzi dei vari propagandisti della Lega che infestano Twitter, e di altri decaduti personaggi dei servizi e della massoneria che invece su Telegram hanno rilanciato per mesi questo depistaggio.
In Italia quindi, a differenza che in Francia e in Germania, c’è un buco non colmato per ciò che riguarda il ruolo di oppositore controllato e ciò spiega il processo di decadimento più accelerato nel Belpaese della democrazia liberale rispetto a Francia e Germania che seguono a ruota.
Il gatekeeper, il termine anglosassone che identifica le opposizioni di comodo, è un po’ la ruota di scorta della democrazia liberale.
Serve a manterene il dissenso nel perimetro desiderato dal sistema, e una volta venuto meno, non c’è più nulla che possa tenere in vita artficialmente questo sistema politico.
Il dissenso esce dal perimetro desiderato e va dove fa più paura alla massoneria e all’alta finanza.
L’Italia sembra certamente più avanti in questo processo di uscita dal liberalismo, e allora c’è quasi da auspicarsi che Afd vinca le elezioni a febbraio, in modo che così i tedeschi possano vedere di che pasta è fatta questa falsa opposizione e poi iniziare a invocare un partito che non sia l’ennesimo dissenso controllato partorito nelle stanze della massoneria e della finanza ebraica.
I tedeschi ormai sembrano molto vicini a comprendere quello che gli italiani hanno compreso già da tempo poiché la moneta unica è stata certamente concepita per la deindustrializzazione italiana, ma più in generale per comprimere i salari di tutti i Paesi che la adottano.
E’, in altre parole, il manganello del capitale contro la classe lavoratrice costretta a vivere in una enorme disoccupazione e invasa da un’orda di immigrati, clandestini e non, che ha il preciso scopo di svalutare ancora di più i salari oltre a quello di mischiare le razze europee nella speranza di distruggerle, come auspicava il citato conte Kalergi.
L’euro in principio consentiva alla Germania di gonfiare artificialmente le sue esportazioni, ma ora quella fase predatoria a discapito degli altri Paesi vicini, è finita.
L’Europa tutta è inghiottita da un buco di stagnazione economica dal quale non si può uscire se non attraverso il ritorno alle monete nazionali e con il definitivo abbandono delle suicide politiche ordoliberali.
Nel momento stesso in cui la Germania raggiungerà tale consapevolezza, se già non ci è arrivata, allora sarà nelle stesse identiche condizioni dell’Italia e in questa corsa a tre la Francia potrebbe seguire presto una volta che si tornerà inevitabilmente alle elezioni e con il possibile successo di Marine Le Pen.
Anche in quel caso, i francesi si troveranno di fronte allo stesso scenario dei tedeschi quando vedranno che la figlia di Jean Marie nulla farà per uscire dall’UE e dall’euro, e il popolo allora anche lì inizierà a invocare a gran voce la fine della farsa della democrazia liberale.
L’Italia però, come si diceva in precedenza, in questa competizione sembra essere più avanti di tutti. E’ il Paese più maturo per uscire dalla gabbia burocratica, e il più consapevole del fardello che comporta essere schiavi dell’Euro-Atlantismo.
Nel 2025, l’Italia appare certamente come la favorita per dare la definitiva spallata alla dittatura liberal-democratica.
Occorre soltanto attendere la futura crisi del governo Meloni dopo il quale il sistema politico non ha più nulla da offrire per conservare il precedente status quo.
Non va dimenticato poi che a Washington al presidente Trump basterà soltanto premere il bottone dei dazi per accelerare la crisi europea.
Intanto ieri un altro pezzo del fragile apparato globalista è caduto.
Dopo le dimissioni di Scholz, dall’altra parte dell’Atlantico, in Canada, è giunta la notizia delle dimissioni del ministro delle Finanze canadese, e ora pare che lo stesso primo ministro Trudeau, altro delfino di Davos, stia prendendo in considerazione le dimissioni.
E’ un effetto domino.
Non c’è verso di arrestare la caduta delle tessere del Nuovo Ordine Mondiale e dell’Unione europea.
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