Rinunciamo alle libertà senza che qualcuno ce lo imponga. È questa la peggiore delle epidemie
La scrittrice e sceneggiatrice affronta con MOW tutte le questioni più spinose del momento. Sui diritti delle minoranze dice che “non si riesce a difenderli senza ledere quelli di qualcun altro”, sulle nuove regole inclusive del cinema parla di “idiozia al potere” e di “morte dell’arte”, sulla produzione culturale lamenta che “l’unico padrone è il consenso”, bolla la neolingua politicamente corretta cara a Michela Murgia come “formalismo ipocrita” e “censura”. Poi si esprime sulla condizione della donna (“non servono bandierine, ma cose reali”), sulla body positivity (“perché tu ti puoi vestire da balena e Diletta Leotta non si può vestire da Barbie?”), sulle accuse di transfobia che vengono sempre più dispensate (“un grande classico contemporaneo, quello della coltivazione di uno status di vittima in servizio permanente”) e sulla libertà di espressione: “Orwell era ottimista. Noi rinneghiamo il libero arbitrio senza bisogno di un dittatore. Siamo noi i dittatori di noi stessi”
“Il mondo è vittima di un rincoglionimento totale, di stampo reazionario. Noi vecchi non pensavamo certo di lasciare un mondo ideale, ma morire (facciamo le corna perché vorrei stare ancora un po’ qua) travolti dalla stupidità è veramente spiacevole. Non si riesce a difendere i diritti di qualcuno senza ledere i diritti di qualcun altro”: lo dice Barbara Alberti, scrittrice e sceneggiatrice, commentando per MOW la notizia del rifacimento coatto del doppiaggio di “Una donna promettente”, con tanto di scuse, dopo che era venuto fuori che a Roberto Pedicini (che dà la voce tra agli altri a Kevin Spacey e Javier Bardem) era stata fatta “erroneamente” doppiare un’attrice trans. Forse il primo caso italiano dopo quelli internazionali, soprattutto quelli dei Simpson, da parte della cui produzione è stato annunciato tra le altre cose che i bianchi potranno prestare la propria voce solo a personaggi bianchi (cioè, a ben guardare, a nessuno, visto che i Simpson al massimo sono gialli).
Un discorso analogo vale per gli attori e per le polemiche riguardanti quali ruoli si “possano” interpretare o meno (gay, disabili, eccetera). Non le pare?
“Certo. È assurdo. Se io sono un attore bravo o bravissimo – si chiede Alberti – perché non potrei interpretare un ruolo piuttosto che un altro? La recitazione è trasfigurazione, dissolve l’identità, ogni rappresentazione di te che hai nel mondo. Altro che regolette fintoprogressiste. È la morte dell’arte”.
Anche perché il lavoro dell’attore e del doppiatore per definizione è quello di interpretare qualcun altro. O no?
“Recitare è inventare. Dunque è censura pura, idiozia al potere”.
E sulle quote minime riservate alle minoranze per poter partecipare agli Oscar?
“Questa cosa distruggerà il cinema. Mio marito (Amedeo Pagani, ndr) è produttore di registi come Theo Angelopous, Marco Bechis, ha fatto film bellissimi, ha portato in Italia Wong-Kar Wai, Kitano. Ed è disperato. Come tutti quelli che vogliono fare il vero cinema, quello sentito, quello bello. È la negazione della libertà creativa. Un mondo morbidamente, mellifluamente totalitario di base, che cerca di salvarsi con la forma, degrada la moralità a slogan e censura le parole, sostituendole con altre che sono a volte più offensive dei nomignoli infami di una volta. Credono di creare un’uguaglianza teorica, verbale. Pensano che cambiando le parole si possa cambiare tutto. Perché non iniziare i giovani alla bellezza (in ogni senso), che quella sì educa a non essere dei bestioni razzisti. Cosa verrà fuori ancora nell’arte? Che magari un bravo violoncellista non potrà suonare in un’orchestra perché non è gay o non è nano? Puro nonsense. Penso che in futuro, se gli uomini si riprenderanno, di questa epoca si riderà molto. Forse ne nascerà una grande fioritura artistica satirica”.
Anche in quel settore, però, la situazione non è buona. Già molti comici sono stati vittima dell’“affetto” delle masse di suscettibili sui social.
“Un altro sintomo di dittatura. In ogni epoca, l’arte si è sempre fatta contro. Poemi, libri, film: le grandi opere sono sempre apparse scuotendo i lettori, spesso andando contro il gusto corrente. Adesso un algoritmo mi dovrebbe avvertire di qual è il gusto del pubblico, per indicarmi come dovrei scrivere, conformandomi a quello? Adesso l’unico padrone è il consenso. Comincia fin da piccoli questa alienazione: voler piacere a tutti, perenne nevrosi, incurabile. Bambini di 12 anni si chiedono fra loro «tu quanti like hai?» Generazioni che crescono per piacere agli altri, per conformarsi al conforme, perdendo sé stessi”.
Cosa pensa di chi, come Michela Murgia, ha iniziato a utilizzare lo schwa, il segno pressoché illeggibile che starebbe a indicare un presunto plurale neutro?
“Mi meraviglia. Michela Murgia è una persona semplicemente geniale, con una dialettica formidabile, e una scrittura che resta. E poeta. Giorni fa mi sono ricordata una frase bellissima: «Questo luogo dove la lingua più parlata è ancora il silenzio». L’ho attribuita a T.S. Eliot, invece era di Michela Murgia. Come può una persona con un tale istinto poetico incartarsi in questo formalismo, in questo barocchismo moderno? Se censuri Céline, e lo traduci in un linguaggio politicamente corretto, non solo diventa illeggibile, ma sciocco. È bello e vitale che ci siano gli uomini, le donne, i trans. Ma senza manuali di bon ton ipocrita. Io voglio essere libera di dire tutte le parole che voglio, persino di bestemmiare. Ora dobbiamo rifare tutta la letteratura mondiale? Se non diciamo più “zoppo” la persona non è più zoppa, e sarà trattata con maggior rispetto? Riguardo alle minoranze etniche e sessuali, occorre educare i figli, da subito, all’intelligenza della diversità. Se i genitori ce l’hanno. Per la nostra cattiva coscienza razzista abbiamo trasformato in ingiuria la parola «negro», che è diventato insulto, mentre «bianco» non lo è. Poi però, quando Willy Monteiro Duarte, pacifico gentile ragazzo, viene assassinato dal gruppo per il colore della pelle, nessuno osa pronunciare la parola “linciaggio”. E si crede di rimediare cambiando le parole? La censura non ha mai portato bene. E nelle grandi manifestazioni di piazza, le stesse parole adoperate come insulto sono poi state usate rivendicazione. Usare parole diverse per identificare le stesse persone, che siano neri, gay, trans o portatori di handicap, non fa automaticamente crescere il rispetto nei loro confronti, mentre fa sicuramente aumentare l’ipocrisia. È grottesco pensare di riformare una società attraverso un formalismo forzoso. Bisognerebbe educare i bambini e i ragazzi a rispettare tutti. Cominciando da sé. A coltivare la libertà. E se proprio si vuole fare qualcosa sul piano della lingua, si insegni a dare del lei agli extracomunitari. Appena hanno a che fare con un nero o un filippino tutti gli danno del tu. È una roba da Alabama”.
Come vede la condizione attuale della donna?
“Penso che sia un disastro, perché tutto questo formalismo non fa che nuocere alla donna. Ci fanno solo omaggi pubblici che mi disgustano. Annunci trionfali, «ci vuole una donna presidente della Repubblica!», sono imbarazzanti. Una donna non vale l’altra e il fatto di essere donna non è una condizione sufficiente: e se poi mi ritrovo la Meloni? Sono convinta che le donne siano migliori nel lavoro. Abbiamo un’energia repressa nei secoli, esplosiva, siamo nuove. Sono fissata con l’idea che la donna abbia una grande fortuna naturale, non dovendo sostenere la prova dell’erezione: per questo siamo meno narcisiste. Le donne hanno la scienza del concreto, che è anche quella del sogno. Ma non è che se una donna arriva ad un’alta carica pubblica ci basti. Si inizino a fare delle cose concrete: intanto continuiamo a essere pagate meno, i maschi continuano ad ammazzarci e ormai non fa più notizia, è una strage accettata, non ci aiutano a fare figli (oggi una donna che lavora e fa un figlio sfiora l’eroismo). La situazione è atroce e sentire che le uniche proposte riguardano la forma mi fa pena, penso che non faccia bene alle donne. Non servono bandierine, ma cose reali”.
Ha sentito del cambiamento di rotta di Victoria’s Secret, che ha abolito le modelle “angeli”?
“È la deriva della body positivity: non è «vogliamo essere liberi di essere come siamo, non vogliamo più essere discriminate!», no, a loro volta impongono un modello. E se a me piace pesare cinquanta chili? Mi ricordo quando hanno attaccato Diletta Leotta perché si era vestita da Barbie: ma come, tu ti puoi vestire da balena e io non posso vestirmi da Barbie? O da elfo? È un’altra forma di perverso razzismo sotterraneo che sta mettendo radici. Io penso che siamo perduti, ma mi piace sperare che duri poco e che vincano i poeti”.
Di recente Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice femminista nigeriana, ha preso posizione sulle traversie subite e sulle pesanti accuse ricevute anche e soprattutto per aver detto che “le donne trans sono donne trans” (sottinteso: non sono donne e basta). Cosa pensa di vicende come questa?
“Mi paiono questioni da sesso degli angeli. Mi perdo su queste sottigliezze. Mi pare però che il tutto rientri in un grande classico contemporaneo, quello della coltivazione di uno status di vittima in servizio permanente. Una cosa che non porta da nessuna parte. Da un lato sono questioni molto soggettive riguardo alle quali ognuno dovrebbe poter essere libero di esprimersi, dall’altro tutto ciò mi sembra molto, troppo barocco. Rimando al magnifico libro di Guia Soncini, “L’era della suscettibilità”, dove spiega magnificamente questa involuzione surreale e masochista, di un mondo dove tutti si ritengono offesi”.
Che opinione ha sul ddl Zan?
“Non conosco a fondo i dettagli della proposta, ma ho fatto una ricerca sulle aggressioni omofobe e i delitti contro le persone omosessuali. Impressionante. Pur non sapendo bene com’è articolata la legge, credo sia indispensabile prendere provvedimenti contro una delinquenza di genere così estesa e violenta. Non ci vuole nessuna indulgenza. Chi tocca un gay, una lesbica, un trans deve sapere che non la passerà liscia. Le leggi servono a questo. Già le pene contro chi ammazza le donne sono quasi sempre inadeguate alla gravità del crimine. Quando si uccide o si fa violenza per categorie (come anche nel caso delle donne) ci vuole un deterrente forte”.
Da approfondire però ci sarebbe il tema della libertà di espressione e dell’uguaglianza di fronte alla legge. Un po’ quelle che, ce lo può confermare lei che l’ha vissuto, erano le rivendicazioni del Sessantotto. Come si è passati a quelle di oggi, che assomigliano molto a censura e settarismo?
“Siamo ormai dei dinosauri, noi, di un tempo in cui si aveva ancora il concetto di libertà. Oggi rinneghiamo il libero arbitrio. E nessun dittatore ce lo sta imponendo. Siamo noi i dittatori di noi stessi. Orwell è stato un grande ottimista: in 1984, delineando una dittatura con i mezzi antichi, imposta dall’alto col terrore, non immaginava che noi ci saremmo offerti alle catene. In 1984 ci sono i fili spinati, le torture. Adesso non ce n’è bisogno. Ci consegniamo spontaneamente. Non riusciamo a sostenere la nostra libertà. Siamo al culmine di questo rifiuto, che c’è sempre stato, ma la velocità della comunicazione contagia tutto. Quella è la peggiore delle epidemie. E – conclude Alberti – ci siamo dentro”.
Fonte: mowmag
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