Città del Vaticano – I vescovi italiani mettono le mani avanti. Vedendo lo choc provocato in Francia e, soprattutto, più di recente, i risultati nella diocesi di Monaco di Baviera dove una commissione indipendente incaricata di analizzare gli archivi diocesani ha fatto emergere insabbiamenti palesi e un numero impressionante di vittime di abusi sessuali nel corso dei decenni, la Cei continua a difendere una linea contraria a fare indagini storiche su un lungo periodo. I propri documenti interni (finora top secret) su come sono stati gestiti i casi dei preti pedofili in tante città italiane, da Milano a Napoli, da Savona a Palermo, sono destinati a restare chiusi a chiave a doppia mandata.
Al momento sembra più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che la Cei promuova una indagine sulla pedofilia come stanno facendo gli episcopati europei. «La ricerca della giustizia nella verità non accetta giudizi sommari, ma si favorisce sostenendo quel cambiamento autentico promosso dalla rete dei Servizi diocesani per la Tutela dei Minori e dai Centri di ascolto, che vanno sempre piu’ crescendo» hanno fatto sapere i vescovi italiani in un comunicato diffuso dopo quattro giorni di assemblea.
Il segretario dei vescovi, monsignor Russo, incalzato dai giornalisti, ha poi messo le mani avanti rispecchiando l’orientamento negativo della stragrande maggioranza dei vescovi contrari a replicare il modello di ricerca fatto da altri episcopati europei, prendendo in esame un lungo periodo di tempo, incrociando i dati relativi ai tribunali italiani (gli unici che finora hanno dimostrato di funzionare davanti ad episodi di pedofilia) con quelli (finora super segreti) dei tribunali diocesani o degli archivi vescovili.
Anche in Italia la Chiesa ha sempre seguito la prassi di spostare il prete molestatore da una parrocchia all’altra, da una diocesi all’altra, con ben poca attenzione per le vittime. «La questione naturalmente e’ oggetto anche di una riflessione, di un dialogo, non so pero’ se si possa parlare di modelli. Bisogna anche qui avere un’attenzione alla comunita’ in cui si vive, quindi non si puo’ generalizzare dicendo esiste un modello» ha affermato monsignor Russo dribblando la stampa.
In passato anche il Papa è stato costretto a strigliare i vescovi italiani piuttosto restii ad avere atteggiamenti di trasparenza. Basti pensare che finora la Cei non ha dato conto all’opinione pubblica del fenomeno nella sua complessità, rifiutandosi di rispondere persino alle reiterate domande dei giornalisti su quanti sono i preti pedofili che finora sono stati denunciati alla Congregazione della Dottrina della Fede o quelli che finora stati ridotti allo stato laicale.
A proposito della piaga degli abusi su minori e persone vulnerabili, il Consiglio della Cei, si legge nel comunicato finale, «ha confermato l’impegno – gia’ espresso nella 75esima Assemblea Generale Straordinaria (22-25 novembre 2021) a implementare e rafforzare l’azione di tutela». Ogni diocesi dovrebbe avere una commissione interna per l’ascolto delle vittime ma non ovunque il funzionamento è omogeneo. A lamentarsene è stata non solo l’associazione delle vittime L’Abuso, ma anche alcuni dei sacerdoti che da tempo insistono per un cambio di passo. Per esempio padre Hans Zollner, il gesuita tedesco che alla Gregoriana ha avviato un programma di collaborazione con diverse conferenze episcopali nel mondo.
In Italia, contrariamente a quello che accade in altri paesi, non esiste l’obbligo di denuncia alle autorità civili da parte dei vescovi, i quali sono tenuti a collaborare solo moralmente. Già nel 2012 la Cei in un vecchio documento intitolato «Linee guida per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici» spiegava di essere esonerata dall’obbligo di deporre in un tribunale italiano o di esibire agli inquirenti italiani documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragioni del proprio ministero, e di non avere l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria le notizie ottenute in merito ad abusi.
La questione da un punto di vista strettamente giuridico si basa sul quarto comma dell’articolo 4 del Concordato del 1984, e sugli articoli 200, 25 e 331 del Codice di Procedura Penale italiano: di fatto ogni vescovo può rifiutarsi di testimoniare in un processo penale così come ogni sacerdote può farlo appellandosi al segreto derivante dal proprio ministero. Sul tema della pedofilia, a parte rari interventi da parte del mondo politico, nessun partito si è mai fatto seriamente carico di cambiare le disposizioni in materia e avviare un percorso in grado di portare ad una revisione pattizia dell’articolo 4. In Italia, anni fa, il deputato grillino Matteo Mantero aveva presentato in Parlamento una interrogazione per sapere quali fossero gli elementi statistici «sui procedimenti, definiti e ancora pendenti, nelle procure della Repubblica per reati sessuali contro minori, che vedono indagati o imputati ministri di culto». Nessuno ha mai risposto.
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