di Cesare Sacchetti
Quando si leggono gli articoli della rivista americana Foreign Affairs si deve avere presente che attraverso questo pubblicazioni non passano solamente i singoli messaggi dei suoi autori.
Foreign Affairs è qualcosa di più. Foreign Affairs è la rivista edita dal Council on Foreign Relations (CFR), un istituto con il quale forse non tutti hanno famigliarità ma che è stato il dominus indiscusso della politica estera americana per quasi 100 anni.
Nato nel 1921 dopo la fine della prima guerra mondiale e all’alba dell’era internazionalista degli Stati Uniti inaugurata da Woodrow Wilson, questo think- tank finanziato dalla famiglia Rockefeller è stato il motore della politica estera americana.
Talmente elevata è l’influenza che la famiglia di finanzieri ha su di esso che il CFR si è dotato di un programma chiamato David Rockefeller Studies Program, che sul sito dell’istituto viene descritto come quel serbatoio di idee che vengono poi trasmesse ai presidenti e ai membri del Congresso.
E’ sostanzialmente un modo alquanto ipocrita, tipico dell’universo liberale, per affermare che il CFR è il mezzo per trasmettere le direttive impartite dai Rockefeller alla classe politica degli Stati Uniti che si ritrova ad essere soltanto uno strumento nelle mani dei capitalisti di New York.
In quest’occasione è interessante prendere in considerazione un articolo pubblicato recentemente proprio dall’istituto in questione per comprendere meglio lo stato d’animo e i pensieri di quella che è stata una delle lobby più potenti in America, che ha scelto in anticipo tutti i presidenti che si sono insediati alla Casa Bianca dalla sua fondazione con la nota eccezione di Trump.
L’articolo in questione è firmato da Bill Burns, capo della CIA – altro organo sin dal principio controllato dai Rockefeller – che si sofferma ad analizzare il divario tecnologico che l’agenzia di intelligence si trova a dover affrontare nel futuro.
Dopo essersi soffermato sui progressi tecnologici in corso e sui metodi di spionaggio utilizzati nel passato, Burns prende in esame le sfide tecnologiche del futuro e manifesta una evidente preoccupazione poiché Washington non sembra più stare al passo coi suoi rivali, su tutti Russia e Cina che nel corso degli ultimi anni hanno compiuto enormi avanzamenti tecnologici e militari.
Soprattutto ciò che sembra angosciare Burns, al netto di alcune sue uscite propagandistiche contro Putin descritto come “impaurito” ma non si sa bene da chi, è il fatto che gli Stati Uniti non riescono più a presidiare quello che è stato un pilastro della storia e delle relazioni internazionali del 900, ovvero il famigerato impero americano.
Quando il capo della CIA scrive infatti che dopo l’11 settembre “l’ascesa della Cina e il revanscismo della Russia pongono delle scoraggianti sfide geopolitiche in un mondo di intensa competizione strategica nel quale gli Stati Uniti non godono più di un’incontestata supremazia strategica e nel quale le minacce climatiche esistenziali stanno crescendo ” è costretto ad ammettere che gli USA non hanno più la supremazia di un tempo.
Il crollo dell’URSS e la supremazia assoluta di Washington
Per poter comprendere come si è giunti a questa nuova condizione, occorre prima fare un passo indietro alla conformazione geopolitica assunta dalla storia e dalle relazioni internazionali nei primissimi anni della globalizzazione.
Una volta avviato il processo di dismissione dell’URSS, creatura della finanza anglosassone che ne ha poi decretato l’estinzione attraverso l’aiuto del suo emissario, Gorbachev, sullo scacchiere internazionale si è creato un enorme vuoto geopolitico nel quale gli Stati Uniti non avevano nessun serio concorrente alla sua supremazia politica e militare.
In Russia, si instaurava un governo fantoccio presieduto dal famigerato Boris Eltsin, che consegnò di fatto le chiavi del potere a Washington e alla CIA.
L’impero americano appariva più forte che mai e sfrutta questo periodo di transizione per elaborare la sua strategia di dominio attraverso l’elaborazione della teoria delle guerre preventive, elaborata dai famigerati neocon attraverso il Project for the New American Century, una lobby sionista, nata esplicitamente per concepire la base ideologica necessaria per aggredire gli avversari dello stato di Israele.
A fare parte di questo gruppo sono personaggi come John Bolton, Paul Wolfowitz e Bill Kristol , tutti di origine askenazita e futuri membri dell’amministrazione Bush che scatenerà poi l’inferno in Medio Oriente.
La strategia della guerra preventiva poteva avere solo successo se ci fosse stato una sorta di crisi artificiale così imponente da dare a Washington il pretesto di attaccare i nemici dello stato ebraico.
Nei documenti del PNAC che risalgono alla fine degli anni 90 si parla esplicitamente di un “evento catalizzatore simile ad una nuova Pearl Harbor” per giungere a tale fine, e nel 2001 arriva puntuale l’attacco dell’11 settembre nel quale Israele ha avuto un ruolo di primo piano, e a questo riguardo si può ricordare, tra le altre cose, la storia degli agenti del Mossad danzanti di fronte al crollo delle Torri.
L’impero dunque avanza incontrastato e attacca Afghanistan e Iraq negli anni 2000 per poi arrivare ai bombardamenti della Libia con l’esecuzione pubblica di Gheddafi e gli attacchi terroristici contro Assad dopo.
Le differenze tra l’ascesa di Russia e Cina
In questo lasso di tempo però, lo scenario che il mondo neocon e sionista tanto temeva si manifesta.
La Russia passa dalla dimensione di stato fantoccio a quella di nazione leader delle relazioni internazionali in grado di costruire un’alternativa geopolitica all’impero che non sia quella della completa sottomissione ai voleri dell’anglosfera e del sionismo, ma quella di rapporti dove le nazioni vengono trattate da pari e non come colonie da sottomettere.
Sono i primi germogli di quelli che oggi sono il mondo multipolare e i BRICS.
L’ascesa della Cina, soprattutto da un punto di vista commerciale, invece non è stata in alcun modo contrastata dagli Stati Uniti, ma al contrario è stata fortemente favorita dall’impero americano.
La globalizzazione per poter avere successo e giungere ad un mercato dominato da un gruppo di pochissimi oligopolisti aveva bisogno di un enorme mercato a basso costo e non esisteva altro Paese al mondo con caratteristiche più ideali della Cina per attuare la visione neoliberale.
L’amministrazione Clinton fu quella che diede il via libera all’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, e fu quella che avviò il processo di deindustrializzazione americana ed europea a tutto vantaggio del gigante cinese.
La Cina, potremmo dire, faceva parte del club mondialista ed era stata invitata al tavolo. Ciò che ha portato ad un suo allontanamento dall’anglosfera è stato il suo disinteresse e la sua ostilità di cedere del tutto la sua sovranità ad una futura governance globale nella quale la Cina si sarebbe ritrovata a sua volta come un mero vassallo dei signori della finanza internazionale.
Questo spiega anche il divorzio tra Pechino e Wall Street con la fuga dei capitali anglosassoni dalla Cina e il ritorno negli Stati Uniti.
L’elemento decisivo che ha consentito però di avviare la stagione della fine dell’imperialismo americano è stato sicuramente Donald Trump.
Se è vero che nel mondo sono sorti nuovi attori con visioni antitetiche a quelle del CFR e dello stato profondo di Washington è altrettanto vero che ciò è stato possibile anche grazie alla nuova filosofia di Trump fondata non sulla preservazione dell’impero e del suo disegno globalista, ma sugli interessi americani e sulla difesa della sovranità nazionale.
C’è stato indubbiamente un passaggio degli Stati Uniti passati da una dimensione internazionalista ad una nazionale che ha sconvolto completamente la storia mondiale e i precedenti equilibri.
La presidenza Biden e la mancata restaurazione dell’impero
Quello che ancora diversi osservatori faticano a spiegarsi è il mancato ritorno allo status quo precedente a Trump che avrebbe dovuto attuarsi con la presa del potere di Biden.
La frode elettorale alla quale hanno partecipato tutte le più importanti corporation e gruppi finanziari d’America – come da loro stessi riconosciuto seppur chiamandola per via della loro incurabile dissonanza cognitiva lotta per la “democrazia” – era stata concepita proprio per questo.
Lo stato profondo aveva la disperata esigenza di riportare le lancette dell’orologio della storia alla situazione che precedeva il 2016, l’anno di elezione di Trump, e si è messa in atto di conseguenza la più grossa frode della storia nella quale il governo italiano sembra aver avuto un ruolo altrettanto decisivo con il famigerato scandalo dell’Italiagate.
Biden serviva a questo. Biden serviva a rinsaldare nuovamente quel rapporto tra l’America e il globalismo interrotto da Trump e invece assistiamo al fenomeno opposto.
Assistiamo al proseguimento dei fondamentali della politica estera di Trump attraverso il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e quello imminente e definitivo dalla Siria.
Su questo ultimo scenario ha lanciato l’allarme Foreign Policy, un’altra rivista dell’universo dello stato profondo di proprietà del Washington Post.
Così come assistiamo allo stesso modo al rifiuto degli Stati Uniti di venire in soccorso del regime nazista di Zelensky con il mancato invio di truppe americane, come ci si attendeva da un’amministrazione democratica, e dal rifiuto di sostenere anche economicamente Kiev.
L’impero non torna ad essere impero ma continua a disgregarsi poiché il suo presidente non fa evidentemente nulla per attuare le volontà del CFR.
Quest’anomalia politica riporta agli accadimenti del gennaio 2021 quando molti ebbero l’impressione che l’inaugurazione di Biden fosse alquanto anomala e le perplessità aumentarono nelle settimane successive quando il presidente nemmeno teneva le conferenze stampa che si tengono nella tradizionale sala stampa della Casa Bianca.
Questo senza contare le interminabili gaffe commesse da Biden in patria e all’estero seguite poi dai rifiuti senza precedenti di vari capi di Stato di parlare al telefono con lui, come se il presidente degli Stati Uniti fosse una sorta di fastidioso promoter telefonico al quale gli statisti di mezzo mondo si fanno negare.
Non ci sono precedenti del genere ovviamente e questa situazione di limbo potrebbe spiegarsi con quanto accaduto nel gennaio del 2021.
Alcune fonti militari e diplomatiche, che hanno raggiunto anche questo blog, sostengono che in quel frangente Trump abbia firmato una legge speciale nota come atto contro le insurrezioni che consente al presidente di ricorrere ad una serie di poteri straordinari per reprimere un tentativo di eversione ai suoi danni.
Ciò prevede il coinvolgimento delle forze armate che da quel momento in poi assumono il potere. Il Paese in questo caso sarebbe passato da un’amministrazione civile ad una militare e questo passaggio non è nemmeno necessario che venga reso noto al Parlamento, poiché lo stesso atto contro le insurrezioni non lo prevede affatto.
Il presidente degli Stati Uniti ha poteri ampi e speciali che gli sono stati dati in passato dagli stessi membri dello stato profondo che oggi stanno facendo di tutto per impedire un ritorno ufficiale di Trump.
Ora lasciamo che siano i lettori a valutare le informazioni che ci sono state trasmesse, ma è un fatto indiscutibile che Joe Biden non stia soddisfacendo in nulla coloro che lo hanno messo lì e che invece che restaurare l’impero stia portando al suo inevitabile declino.
L’elemento che emerge indirettamente dall’analisi di Burns è questo. Lo stato profondo ha preso atto a malincuore di aver perduto il comando della superpotenza americana senza la quale nessun governo mondiale è attuabile.
Il momento storico attuale registra la fine dell’impero americano e dell’anglosfera e una nuova fase epocale nella quale gli assetti del XX secolo sono definitivamente giunti al termine.
Il secolo americano, e soprattutto sionista, è giunto al termine ed è questo che tormenta non solo uomini come Burns ma anche tutti coloro che a tale apparato come la classe politica in Italia che senza l’esistenza dell’impero non ha alcuna possibilità di sopravvivere a tale congiuntura storica.
Il 900 è stato certamente il secolo degli imperi e delle organizzazioni sovranazionali che comandavano la politica della nazioni. Quello attuale invece si profila invece come il secolo delle nazioni e del multipolarismo.
D’Alema, uomo da sempre appartenente all’establishment globalista, ne prese atto a malincuore e parlò esplicitamente di fallimento del Nuovo Ordine Mondiale. Il mondialismo ha perso la sua partita e, a quanto pare, fa una tremenda fatica ad accettare la sua scomparsa.
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